Nessun dubbio sul fatto che la controffensiva ucraina di questi giorni è stata sostenuta dall’invio di nuovi armamenti e dall’aiuto ricevuto dai satelliti e aerei spia forniti dal Pentagono, ma ciò non esclude la sconfortante debolezza manifestata dall’esercito russo sin dall’inizio dell’operazione militare speciale.
Come ha scritto Oriana Moscatelli in Putin e il Putinismo in guerra, non è solo una questione di armi è questione di quanto sei pronto a versare il sangue per la Patria. Troppe ed evidenti sono state le storture e le incertezze prodotte sulla “verticale del potere” con una linea di comando ed una tenuta dei ranghi non sempre esemplare. Prima l’affondamento dell’incrociatore Moskva poi quel patetico video in cui viene ripreso un tank messo in fuga dalle avanguardie ucraine che, preso dal panico, sbaglia curva, deraglia e si schianta contro un albero hanno inferto un duro colpo all’immagine di grande potenza della Russia. E’ anche grazie a questa fragilità se le truppe ucraine sono state capaci di riprendere sotto il loro controllo migliaia di chilometri di terreno che i russi avevano conquistato con uno sforzo bellico di tre mesi costosissimo in termini di vite perdute e mezzi distrutti. Ma ancora più deprimente per l’orgoglio autarchico è stato il dover assistere all’indecorosa ritirata di soldati sbandati che scappano dal fronte senza alcun piano strategico, simile ad una resa incondizionata di massa.
Anna Politkovskaja nel libro “La Russia di Putin”, prima di essere barbaramente uccisa, aveva descritto il marcio corrosivo penetrato nei gangli vitali dell’esercito russo raccontando in modo crudo e dettagliato, una vita di caserma degradata in cui soldati vengono offesi e umiliati, torturati come cavie da parte degli ufficiali, costretti a subire violenze psichiche e materiali, spogliati di ogni dignità, senza cure mediche e senza nessuna prospettiva di carriera. Episodi sempre coperti e giustificati dalle alte gerarchie militari e politiche. Tracce di questo disfacimento si trovano già ben visibili in una delle pagine più gustose ed sarcastiche di Guerra e Pace.
Tolstoj descrive ciò che avvenne dopo l’emblematica battaglia di Borodinò svoltasi nel settembre del 1812. L’esercito dello zar quel giorno sembrò contenere la forza d’urto della Grande Armata con uno spirito combattivo fuori dal comune, rispondendo colpo su colpo alle bordate dell’artiglieria francese e respingendo le turbinanti scorribande degli ussari a cavallo. Al tramonto si contarono migliaia di morti soprattutto tra i russi. Napoleone stesso rimase stupefatto da tanta coriacea resistenza. Trascorsa la notte, pur ritenendo di aver assestato una portentosa sberla all’armata francese, il Serenissimo si mise a ripiegare verso sud iniziando la cosiddetta marcia di fianco, scomparendo alla vista delle truppe francesi a cui lasciò campo libero per Mosca. Kutuzov conosceva l’anima russa, la sua straordinaria forza spirituale, ma teneva in massimo conto anche l’incuria e l’inadeguatezza dell’esercito dello zar che voleva ad ogni costo preservare da una completa distruzione. Nei giorni successivi dovette resistere con santa pazienza alle pretese dei suoi generali che deprecavano la sua tattica attendista e ardevano di dare battaglia reputando agevole poter assestare un colpo mortale ai francesi. Kutuzov da principio oppose diversi pretesti per starsene fermo, ma poi decise di accontentarli dando l’ordine di attaccare, pur stimando la cosa inutile e dannosa. Fu stabilito che le truppe dovessero ritrovarsi nei posti assegnati alle prime luci dell’alba, facendo massima attenzione a qualsiasi rumore o fruscio. Era vietato parlare forte, fumare la pipa, battere l’acciarino e trattenere i cavalli dal nitrire. Tutti i reparti avevano un luogo convenuto dove sistemarsi per l’attacco, ma ci furono reparti di fanteria che si persero per strada, alcuni arrivarono in ritardo, alcuni si interposero nel loro passaggio o si dovettero fermare per far transitare mezzi corazzati che andavano dalla parte opposta. Ci furono quelli che volevano tornare indietro e quelli che in una notte fredda e umida d’autunno dicevano allegramente: In qualche posto arriveremo. Nonostante il suo fiero patriottismo Tolstoj dovette rassegnarsi a dare ragione al comandante supremo che, nonostante i grandi clamori dei suoi generali, giudicava di aver sotto le sue dipendenze un esercito disordinato e male in arnese. A parti invertite e a
distanza di anni il generale Sirsky, comandante delle forze di terra dell’esercito ucraino, gli ha rubato il mestiere, proponendo falsi arretramenti e ingannevoli concessioni al nemico per blandire la sua superiorità militare ed il suo supposto genio sconfinato per poi colpirlo nel momento più propizio. Il bluff vincente di Sirsky con i russi è stato costruito con le stesse armi di Kutuzov, mantenendo lo stesso sangue freddo nel farli credere incontenibili e fiduciosi nel potersi spingere velocemente dentro le strade di Kiev, per poi obbligarli ad una frettolosa e inaspettata retromarcia. Li ha poi invogliati a concentrare migliaia di uomini nel sud pensando che sarebbe stato lì che si decidevano le sorti della guerra lasciando così sguarnito un vasto territorio di riconquista presidiato da militi disillusi con molta poca voglia di combattere. Così un’invasione che all’inizio sembrava a portata di mano, visto i rapporti di forza iniziali, dopo questo umiliante arretramento mostra inequivocabili segnali di cedimento a cui neppure la mobilitazione degli annunciati trecentomila riservisti difficilmente potrà porre rimedio. Ed anche qui, come nel 1812, si va verso un inverno rigido e impietoso.