Fuggire dalla rete o imparare a maneggiarla? Sapersi orientare tra i suoi gadget oppure lasciarsi manipolare dalle sue trame ossessive, con l’accanimento da tastiera, permettendole di entrare funzionalmente, e nel profondo, nelle nostre vite? Ne è un esempio l’operazione mediatica architettata dall’influencer Chiara Ferragni che ha lanciato un
documentario in cui descrive sé stessa e la sua stupefacente corsa verso il successo, suscitando l’entusiasmo osannante di moltissimi giovani. Ormai non si contano neanche più i personaggi che spopolano il mondo dei social facendo tendenza con i loro profili accattivanti, trascinandosi dietro eserciti di proseliti in estasi, come neanche nelle peregrinazioni delle madonne pellegrine.
Dopodiché bisogna decidersi se le nuove generazioni debbono restare eternamente follower di qualcuno che li solletica una lettura illusoria, narcisistica, vagamente voyerista della realtà. Ci si chiede perché migliaia di ragazzini scelgono di seguire le avvincenti gesta di influencer e youtuber che imperversano sui social? Perché invece di andare in libreria a comprare un libro di Salgari prenotano su Amazon il best-seller di Giulia De Lellis che a quanto pare ha scritto un libro senza averne mai letto uno in vita sua? Cosa ci trovano di intrigante e di stimolante in questi maître à penser? Cosa impedisce al mondo degli adulti di arginare questa stucchevole derubricazione dell’intelligenza, questo imprudente intrappolamento del pensiero i cui disastri verranno a galla nel disincanto di una realtà spesso scomoda e disagevole? La risposta a queste domande metterebbe a fuoco gli errori di superficialità e supponenza di cui dobbiamo farci carico un po’ tutti riguardo alla vulnerabilità dei nostri ragazzi spinti verso un’acritica e fascinosa dipendenza del web.
Non c’è motivo di dubitare delle potenzialità di internet: s’è ampiamente detto che alcuni tra i cervelli più brillanti del pianeta convivono su internet, a contatto di gomito, con le persone più stupide. Non era forse così nelle nostre piazze, nelle nostre osterie? E’ sempre esistito lo scemo del villaggio con cui si scherzava e si faceva allegria con qualche innocuo sfottò. Solo che prima era uno solo e indifeso, ora sono milioni e micidiali. I social hanno oscurato persino il buon umore, scrive Natalia Aspesi: “si aspetta solo l’aggressione per poter rispondere con l’aggressione”.
E’ davvero questo tipo di talento che circola nel web? Ed è verso questo tipo di spazzatura che lasciamo andare incontro i nostri giovani senza nemmeno provare a scardinarne il processo? Un tempo si diceva: I bambini ci guardano. Se anche noi restiamo incollati al display tenderemo sempre più a non curarci della loro presenza, se proprio noi continuiamo a inserire sui social immagini edulcorate, splendide foto di anniversari e di viaggi leggendari non saremo credibili come educatori e spingeremo i ragazzi a credere che quella è la vita spensierata che li attende; se ci facciamo prendere dall’ossessione di postare ogni attimo della nostra vita sui social, inserendo proditoriamente anche le immagini dei bambini, esibiti come trofei, provocandone così potenziali disturbi emotivi, come se poi tutto questo potesse interessare veramente a qualcuno, stiamo trascurando il fatto che il loro sviluppo mentale è costruito su orizzonti meno vacui e su sofferte comparazioni con il complicato vissuto di ogni giorno, che sarà sempre bello e confortevole nelle immagini che scorrono sullo smartphone, ma spesso si rivela faticoso e opprimente. Purtroppo la rete non rilascia patenti di intelligenza a nessuno. In questo luogo immenso e illimitato, eppure così angusto, non esiste una comunicazione a due vie. I contenuti che ci arrivano sui social si subiscono, si accettano passivamente, possiamo solo cancellarli, ma non ci è concesso confutarli, mettersi in contradditorio, attivando in questo modo il sensore della nostra capacità critica, stimolando la crescita intellettiva.
Il mondo degli adulti si è come perso, deresponsabilizzato di fronte all’invasione digitale che non sa più dominare, ed ora, con quella poca autorevolezza che gli resta, non riesce a convincere i propri figli che le performance di questi influencer non hanno niente a che vedere con la loro maturazione, con la costruzione del loro futuro e che inquina persino il loro divertimento. Lo scopo è quello di suggestionare le giovani menti a scopo di lucro, comportandosi con la stessa malizia dei ciarlatani di altre epoche, come il mitico venditore di sciroppo del vecchio west il cui intruglio veniva pubblicizzato per guarire da ogni possibile dolore, dal mal di denti sino alla tubercolosi. Il segreto della “cura miracolosa” stava nell’aggiunta di un’alta percentuale di alcol che stordiva, rendeva la vita piacevole, ma non curava alcuna malattia. Oggi lo stordimento viene promulgato da queste paranoie penose che non propongono qualche ricetta apache per curare il mal di stomaco, ma perfidamente esaltano un modo di vivere esilarante, una esistenza favolosa, una mefistofelica imitazione della felicità. I vecchi imbonitori si accontentavano di racimolare qualche dollaro, questi ti rubano la vita.