Solo il tempo futuro, con il necessario distacco e la giusta prospettiva d’analisi, sarà in grado di valutare appieno il lascito letterario ed umano di Andrea Camilleri. Per il momento, e pur sapendo quanto sia imbarazzante ed impegnativo l’emozione del commiato, vale la pena soffermarsi, noi semplici e affezionati lettori, a riflettere sulla preziosa eccitazione regalataci dalla sua scrittura e dalle sue parole.
Perché con il maestro noi lettori avevamo da tempo stabilito un rapporto speciale, vibrante e disciplinato. Un rapporto sincero che sapeva di riconoscenza e condivisione dei principi basilari che conducono dritti all’essenza dell’uomo. Camilleri apparteneva a quella ristretta cerchia di letterati, eletti e competenti, la cui sterminata conoscenza di testi e di autori, anche i più esigenti, filtrava con il suo ingegno e la sua esperienza, sedimentandoli poi nelle sue infinite storie in modo che noi profani potessimo servircene a piene mani. Per questo era definito un maestro, perché aiutava a comprendere il mondo anche senza averlo visitato, ad apprezzarne ogni impercettibile sfaccettatura, spiegandocelo con una semplicità disinteressata e benevola.
Spingeva avanti la cultura, nell’animare gli spiriti vaganti e distratti attraverso la propria dimensione interiore, vivendo in mezzo agli altri, come uno tra i tanti, magari fingendosi per una notte l’indovino Tiresia seduto intorno ad un focolare fumante di saperi millenari, senza aureole e snobismo intellettuale. Egli era, per dirla con Bernardo di Chartres, uno dei famosi giganti sulle cui spalle noi nani ci inerpichiamo. Il mio proposito, ha precisato in “Come la penso” – ed. Chiarelettere -, è quello di costruire non un abbazia, ma linde chiesette di campagna immerse in un verde ridente. Scriveva tenendosi sempre aderente alla realtà, che sapeva unica nella sua impervia evoluzione, e la faceva semplice, senza tanti fronzoli e ammiccamenti barocchi, disdegnando quel tipo di letteratura che spesso definiva “penitenziale” dove, spiegava divertito, lo scrittore soffre nello scrivere e il lettore soffre nel leggere.
Ma siamo stati fatalmente attratti anche dal suo vissuto di uomo caparbio e passionale. Mentre il mondo che ci raccontava pareva in via di estinzione, in cui personaggi, atmosfere, modi di essere e di stare al mondo, persino il modo di esprimersi, del saper raccontare e del saper ascoltare, scivolavano via senza ripiego, egli provava a trattenerne il senso, il decoro, il battito ancora vivo e palpitante, per ritardare quanto più possibile il pauroso scivolamento dell’animo contemporaneo dentro un mare di supponenza e di superficialità.
La sua presenza era argine e confine all’incessante smarrimento delle coscienze che sentiva scomporsi nell’odio e nell’indifferenza verso il prossimo, verso l’altro, che lui invece, istintivamente e ostinatamente, onorava anche attraverso una scrittura popolata da persone coriacee e risolute, da menti nobili e raffinate, a partire dall’ormai mitico commissario Montalbano, sino all’autorevole contadino Zosimo ne “Il Re di Girgenti”, figure insormontabili che disprezzano con disgusto quel mondo di mezzo abbruttito, malvagio e prevaricatore, in cui la smania e la forzatura dell’esserci finiscono per incenerire la sostanza etica dell’agire comune, diradando la matrice autentica dello spirito dell’uomo, disperdendo la sua centralità.
Siamo stati infine accaniti sostenitori del suo schietto e premuroso civismo anche quando fustigava, con accenti sempre bonari, i nostri difetti, tra cui includeva spesso il provincialismo e la cronica mancanza di curiosità che non ci segue oltre l’uscio di casa. Per non parlare dell’imbarazzante richiamo al perdurante razzismo mai completamente debellato di cui si mostrava visibilmente preoccupato: “Oggi come oggi il volto dell’italiano non è gradevole da guardare”.
In fondo le sue analisi erano una specie di seduta psicanalitica in cui venivano soppesati i nostri vizi, cercando di non farcene vergognare troppo, come quando si inventò la metafora dell’ideale del motorino per raffigurare la nostra più subdola aspirazione, il nostro più recondito desiderio. Il loro percorso per strada, nel non rispettare alcuna regola, svoltare dove non si dovrebbe, salire sui marciapiedi, si presenta come un’infrazione continua. Non abbiamo perso solo un insigne e prolifico scrittore ma anche un testimone, attento e scrupoloso, che preferiva sorvolare con pazienza sulle insolenze verbali, “se ne fotteva” dei mortificanti rincitrullimenti digitali, suggerendo piuttosto ai più retrivi di stare in guardia dalle trame ingannatrici e credulone che venivano variamente somministrate, richiamandoli ad una maggiore premura e discernimento, senza compromettersi volontariamente con la tipica accondiscendenza dei subalterni, perché, ammoniva, se ci facciamo irretire dalla menzogna e dalle mistificazioni, vuol dire, che l’offuscamento della ragione, il progressivo ammorbidimento della mente, non è né un’ipotesi astratta, né una remota probabilità. Purtroppo anche nel progressivo ammorbidimento della mente aveva visto giusto.