Sindbad il Marinaio nel racconto del suo quarto viaggio intitolato “Il pozzo dei cadaveri”, racchiuso nel librone de Le mille e una notte, viene soccorso da una nave commerciale in transito, mentre disperava su un lembo di costa in mezzo all’Oceano Indiano (sul mare
in burrasca, sferzato dalle sue stesse onde mi apparve una nave). Il capitano della nave rifiuta con sdegno l’offerta di una lauta ricompensa da parte del naufrago apostrofandolo con queste parole: "Quando troviamo un naufrago sulla costa o su un'isola gli rechiamo aiuto solo per il piacere di compiere un’opera buona. Quando avvistiamo un naufrago lo prendiamo a bordo e gli diamo da mangiare e da bere, e se è nudo lo rivestiamo; ma non accettiamo niente da lui, anzi, quando raggiungiamo un porto sicuro, lo facciamo scendere a terra regalandogli un po' del nostro denaro e lo trattiamo gentilmente e caritatevolmente per l'amore dell’Altissimo”.
Purtroppo le tragedie del mare continuano a verificarsi con terribile frequenza come mostra la cronaca di questi giorni. Di recente si è udito l’accorato appello del Papa che menziona l’esperienza di profugo di Gesù: "Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per sé stessi e le loro famiglie è il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli". Altre suppliche seguiranno al perpetuarsi delle sciagure e dei respingimenti. La forza e la caparbietà con cui il Papa richiama il dramma dei rifugiati per quanto energico e appassionato non smuove dall’apatia e dall’indifferenza la comunità politica, compresa parte dell’area cattolica dei fedeli, il cui sentimento sembra catturato da incitamenti meno evangelici.
La fede è preceduta da pulsioni ed istinti primordiali più seducenti capaci di sconvolgere valori, credenze e costumi elaborati in millenni di progressiva civilizzazione; il fenomeno migratorio è tanto traumatico da essere considerato dallo studioso bulgaro Ivan Krastev come una nuova rivoluzione in grado di mettere a soqquadro le liberalità acquisite dalle democrazie occidentali e che, come ogni rivoluzione che si rispetti, deflagra, per contrapposizione, in una controriforma culturale e politica che sprofonda nella testardaggine populista e razzista, tanto più che il conflitto sorto tra internazionalisti e nativisti avvicina, sconvolgendolo, il destino che nuoce ad entrambi; due precarietà che si attraggono nella loro sciagurata contrapposizione: da una parte la pena dei senza patria, dei rifugiati in cerca di una soluzione umana prima che sociale, pronti a rischiare la propria pelle nella speranza del nuovo, e dall’altra la caotica e sempre più traballante difesa del proprio status, centrata nella ossessiva rappresentazione dell’invasione dei propri litoranei, governata con l’insulto e con le barricate, mentre si trascurano colpevolmente le vere urgenze che investono il nostro pianeta come le grandi sfide sociali ed economiche o gli effetti micidiali dell’impatto climatico.
Il mondo moderno, scrive il politologo Ken Jowitt, “assomiglia ad uno strano locale per single” dove la gente si incontra per caso, si frequenta per brevi incontri, senza stabili relazioni, senza coinvolgimenti, svelti nel respingere o regredire nel rancore e nell’inospitalità. Anche la curiosità si inaridisce alterando la sua funzione di germoglio vitale di conoscenza, chiudendosi a riccio verso l’estraneo si smarriscono gli inderogabili obblighi e doveri verso il genere umano. Per questo costruiamo muri, per recintare il nostro orizzonte mentale prima che quello visivo.
Sono passati più di dieci anni dalla pubblicazione del saggio di Umberto Eco “Cinque scritti morali” in cui si approfondisce la differenza tra circoscritti episodi di emigrazione, cioè di singoli o gruppi isolati di persone che si trasferiscono cercando di integrarsi nel paese di destinazione (si pensi ad esempio agli italiani nelle Americhe), rispetto al fenomeno epocale e planetario delle migrazioni di intere etnie o popoli da un paese ad un altro, il cui arrivo è così perentorio e permanente che non solo tendono ad integrarsi ma creano nuove culture, nuovi costumi a cui si adattano gli originali nativi del territorio. Le immigrazioni per quanto possibile possono essere governate e gestite. Le migrazioni invece, violente o pacifiche, scrive Eco, sono come i fenomeni naturali. Avvengono e nessuno le può controllare. E conclude: Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso.
Appare evidente che non si possono costruire ghetti o zone off-limits ovunque quando sono già sotto i nostri occhi grandi città cosmopolite con un vasto e articolato meticciato, metropoli di milioni di abitanti, multietniche e plurilinguistiche, risultato di un interminabile e proficuo incrocio di razze e di composita umanità. Non si può sfuggire ai flussi migratori se non per bieco provincialismo (più che nazionalismo) ed è inutile oltre che immorale opporsi al processo di assimilazione continuo imposto dalla modernità senza cadere ostaggi dell’odio e dell’intolleranza. In realtà come diceva Baumann “ci troviamo in una situazione che ci impone di sviluppare la capacità di convivere quotidianamente con la differenza, con ogni probabilità, per sempre”.
Per vie traverse e imperscrutabili i processi migratori hanno segnato nel corso di secoli la costruzione dell’Occidente, di quello che oggi noi siamo; non si sono potuti fermare le invasioni barbariche, l’esodo dei profughi troiani verso le nostre coste, la discesa massiccia dei normanni in Puglia. Senza migrazioni Taranto non sarebbe mai sorta, dai profughi troiani è nata Roma e dai Normanni si fece avanti Federico II. Non sembra poco.