Il sole tramonta sull’Ilva. I tramonti più spettacolari sono quelli che si accendono proprio a fine estate sullo skyline dello stabilimento con una ingegnosità superba e, allo stesso tempo, dolcissima. Ed è un vero peccato che finiscano, cioè che tramontino. Nelle prime giornate di fresco, quando il caldo torrido si attenua,
il sole si prende il suo tempo e aspetta a declinare, si sofferma ancora un attimo, indugia, sembra attardarsi volontariamente, mentre la sua imponente palla di fuoco, avvolgente e protettiva, sprigiona una opalescente scia purpurea sui morbidi giacigli del mare che nel quieto calore del crepuscolo riprende a respirare con i suoi vaghi bisbigli marini. In quel momento il secondo seno del Mar Piccolo diventa un’incantevole bacinella di acqua argentata e densa, quasi carnosa, circondata da un’atmosfera di morbida naturalezza, di calma sognante, come nei dipinti ad olio delle marine disegnate nel tardo romanticismo.
Si vede il sole fendere con traiettorie veementi e sanguigne i grappoli di nuvole che gli si fanno incontro, disperdendole con spruzzi di magico vermiglio; poi si abbassa, scendendo quasi minaccioso all’altezza dei comignoli della fabbrica, trattenendosi incredulo, recalcitrante, quasi a volersi accertare della sua immarcescibile presenza, dando un’ultima occhiata pietosa prima di scomparire coi suoi mugugni esacerbati dietro l’orizzonte curvilineo dei monti del Pollino sprofondando infine nei flutti vertiginosi e primitivi dello Jonio.
Non ci sarebbe poi tanto da scherzare se dalle nervature del cielo irradiato da saette di luce abbagliante apparisse persino Zeus con la folgore attorcigliata sul petto intento ad osservare lo sconcerto degli umani intossicati dalle fameliche fumarole delle ciminiere, affranti dalla definitiva scomparsa di ogni fulvida speranza di rinascita, esausti e disfatti nell’accettare le umiliazioni del tempo, nel sottostare ad una sorte cortigiana e miserevole, nel disbrigo di una lotta impari tra sopravvivere e morire.
E’ stato Curzio Malaparte a descrivere la differenza tra lottare per non morire e lottare per vivere in pagine di inconsueta crudezza nel libro La Pelle, a raccontarci come le persone che soffrono per non morire conservano comunque la propria dignità, la difendono gelosamente, non si piegano di fronte alla malasorte e all’arbitrio, non rinunciano mai alla nobiltà del proprio animo, mentre, al contrario, come sia umiliante e insultante essere costretti a lottare per vivere accettando vili e abietti compromessi, vergognose infamie, sforzandosi in tutti i modi di sopperire alla miseria e alla tragica sventura degli sconfitti. Il nostro sole, purtroppo, quasi come un avvertimento, continua a tramontare sopra l’Ilva e sopra una città amareggiata ed afflitta, arresa al suo mesto destino.
In questa devastante precarietà e arrendevolezza, scrive il sociologo Bauman, (La grande regressione – Feltrinelli) si ha come l’impressione di perdere il controllo delle nostre vite, ridotti a pedine mosse avanti e indietro sullo scacchiere da giocatori sconosciuti indifferenti ai nostri bisogni, …e pronti a sacrificarci nel perseguimento dei loro obiettivi.
Il destino declinante di una città che ammette di non poter fare a meno dell’Ilva ha il sapore di una resa incondizionata, il timore di non saper deviare la traiettoria spavalda e cinica di un neoliberismo economico sempre più condizionante, guardingo e rapace, nel manipolare consensi e raccogliere profitti, perfetto dove c’è da avvelenare campi e scolorare tramonti. Sembra non ci sia valida alternativa alla utilitaristica narrazione di un capitalismo predatore nonostante le pigre e sempre più scolastiche analisi di certi economisti, di certi politici il cui limite consiste nel non avere coraggio, nel non saper tentare strade più impervie ma più eque ed efficaci, anziché prendersela con i contratti capestro o promettere controlli e verifiche più stringenti su emissioni e tempi delle bonifiche. D’altra parte non si è vigilato su Riva, nascondendo per decenni crimini contro l’uomo e contro l’ambiente, come si pensa ora di poter controllare una multinazionale che viene a Taranto non per vacanza ma per far valere i suoi giustificati e sacrosanti diritti di guadagno?
Ma come si farà a vigilare su questi capitani d’industria smaniosi e intrepidi, che non risarciscono mai, sempre così svelti e irriconoscenti, che ci raccontano di incredibili rischi d’impresa e sforzi imprenditoriali titanici quando la normalità degli affari si trasforma spesso in angoscia collettiva; una realtà in cui risanare, riconvertire proteggere sono verbi sconosciuti e fastidiosi, come se non ci si guadagnasse mai abbastanza. Si avverte questa pesante subalternità culturale che continua a giustificare disuguaglianza e sfruttamento, rigetto e precarietà, che ribadisce la necessità di creare ricchezza senza avere la cognizione di come questa dovrà essere ripartita, che non accetta l’idea che l’auspicato benessere non può essere qualificato con la dimensione degli utili e degli sperperi, ma creando i presupposti per una buona vita per tutti.