L’idea di un Grande Salento evocato a più riprese sembra un onesto tentativo di esibire una maggiore caratterizzazione e visibilità politica. Niente di male se dietro questo anelito “dell’unione fa la forza” si possano rappresentare i tratti autentici del nostro territorio, perché nonostante le buone intenzioni già l’appellativo Grande Salento
risulta di per sé altisonante ed enfatico, persino ignominioso per certi facili accostamenti a fenomeni di esacerbata rivalsa campanilistica come la Grande Serbia, per esempio, la cui ostentazione e la cui asprezza stride con la cordiale e baldanzosa generosità della gente jonico-salentina.
D’altra parte questo lembo di terra è stata nel corso dei tempi una interminabile terra di frontiera, in cui si sono susseguiti approdi e partenze burrascose se non precipitose fughe in mare, almeno da Pompeo sino a Vittorio Emanuele III. Sulle sue coste si sono avvicendate truppe assatanate e manigoldi di ogni risma rigonfi di inesauribile fede e di improrogabile indigenza; è stata terra di piacevole conforto per baroni annoiati o ingentilita da pallide regine, terra di arrembaggio e di abbandono, terra trascurata nonostante credenze cosparse di sogno e di mistero ne abbiano preservato il fascino, sottraendolo al fuoco e alla rabbia scostante dei venti. Non c’è stato il tempo della sosta, del germoglio e della crescita. L’unica radice che ha attecchito è stata la pianta dell’ulivo, solido e vigilante, baluardo alle nostre incertezze, i cui tronchi si incurvano, intrecciandosi, per difendersi dalle intemperie e dalle perduranti inadempienze degli uomini.
Il tempo da queste parti non si è trattenuto abbastanza ed è scivolato flemmatico e dolente senza che si riuscisse ad edificare una desiderosa Samarcanda o un’impareggiabile Timbuctu. Ci si è lasciati crogiolare nel ricordo di un tempo glorioso come se fosse merito nostro lo splendore mitico della Magna Grecia o la stupefacente magnificenza del barocco, mentre oggi banalizziamo la nobiltà degli anfratti, di grotte, ipogei, gravine e campanili, struggenti panorami e sconcertanti pomeriggi; trascuriamo la fresca ombra del fico, i muretti di fichidindia e il sapore acre delle more che stordiscono il palato, disdegniamo il luccichio della calce viva, le pietanze cucinate con il semplice e l’essenziale, il sommesso calpestio dei nostri sentieri, il fruscio ansimante delle onde schiumose, la sonorità ritmica del nostro dialetto, la benevola colorazione dei tramonti sugli arenili. Per chi ne capisce, un insaziabile brand, per quel poco che ancora ne rimane. Queste le nostre armi. E allora da dove spunta il Grande Salento?
Se la strada prescelta non punta alla bellezza e alla vivibilità, rinunciando alla tentazione di spendere ulteriore denaro pubblico per cementare e asfaltare, progettare corridoi, inventarsi bretelle e tangenziali, tagliare alberi secolari per sistemare marciapiedi, edificare nuovi capannoni anziché ripristinare quelli inutilizzati nelle evanescenti zone industriali, continuando ad erodere suolo pubblico con ulteriori progetti di passanti per poter arrivare un quarto d’ora prima al mare, nascondendocelo pure alla vista; e comunque insistendo nel privilegiare il trasporto su gomma ci ritroveremo sempre più luoghi asfissiati e miserevoli. La crescita per essere durevole deve favorire il benessere della comunità altrimenti i legami collettivi di inaridiscono e portano ad un inesorabile declino.
Sinora si è pensato pervicacemente al presente ora è necessario immaginare un nuovo futuro. Ma ci vuole un pensiero nuovo, uno scatto energico che capovolga l’idea dominante del progresso legato ad un Pil effimero e provvisorio capace di alimentare ricchezza solo verticalizzandola, defraudando il bene collettivo e lasciando intorno solo detriti e desolazione. Non ci si può più sottrarre a questa sfida osando una progettualità anche visionaria che contenga e inglobi i tesori del nostro territorio perché, senza scomodare i principi della decrescita felice, si può dare un impulso all’economia anche riqualificando quell’esistente che è stato miracolosamente conservato.
Quanto incremento di Pil occorre per vedere sopraffatti terreni agricoli, vigne e litorali di cespugli millenari cresciuti per la nostra sopravvivenza, invece di rinforzare la nostra agricoltura diffondendo nuove tecnologie e sapienza, noi che siamo stati allevati in mezzo ai campi e non dentro laminatoi a caldo, promuovendo le buone scuole agrarie, assistendo i tanti produttori in grado di far concorrenza alle blasonate case vinicole che da secoli prelevano le alte gradazioni dei nostri mosti per vinificare spumanti mediocri? Mettiamoci le risorse per capovolgere il senso di marcia delle nostre città, rivestiamole, facciamole vivere, rendiamole attraenti, come le misteriose città invisibili di Calvino, laddove era possibile distinguere le città “che continuano, attraverso gli anni e le mutazioni, a dare la loro forma ai desideri..…città in cui ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa”.
Per fare questo non servono frenetici conciliaboli né sfiancanti tavoli tecnici e tantomeno serve ingigantire i muscoli, serve invece un coraggio mostruoso e irriverente per ricontrattualizzare e ridisegnare il nostro futuro, senza aspettare i tempi biblici dello Zes o altre provvidenze decantate da bandi ministeriali; serve reinventare un Salento propositivo e accogliente, ambizioso, a difesa dei reali bisogni della collettività, che non distrugga le nostre tradizioni e che ci renda orgogliosi di appartenere a questa meravigliosa terra.