Nei periodi di pace prolungata non c’è ragione di preoccuparsi della guerra, anche se l’incertezza e la continua involuzione che accomuna la politica alla società civile, sono a volte percepiti come una forma allegorica di guerra permanente.
L’attualità, ovunque, non lesina punte di inquietudine, soprassalti di egoismo, comportamenti disinvolti e spavalderie ostentate, oltre ad un linguaggio sferzante, spesso provocatorio. In questa gazzarra ardimentosa, manipolata dal web in una sorta di scorribanda ossessiva, svaniscono gli inviti alla tolleranza e alla condivisione di obiettivi e aspettative comuni. Come si usava dire un tempo: continuiamo a farci del male. Ormai non si discute neanche più, ma si gareggia dentro un’estenuante guerra di posizione, una guerra di trincea dove un giorno si avanza e l’altro si arretra precipitosamente, lasciando spesso per terra cadaveri ed irragionevoli proclami.
La prima guerra mondiale di cui in questi giorni ricorre il centenario dalla sua conclusione con milioni di vite spazzate via da un mostruoso magma incandescente scoppiò in un clima di schiamazzi e furiose esaltazioni. Le guerre hanno spesso incubazioni tortuose e impalpabili, quasi non ci si crede sino al primo rimbombo di cannone che, alla sprovvista, lacera il silenzio della notte ed affonda le sue schegge nelle carni tremule, facendo poltiglia delle ragioni e dei torti, degli sproloqui e dei distinguo, dei cialtroni e dei meritevoli, colpendo all’impazzata e a tempo scaduto, proprio mentre le persone si alzano per andare al lavoro, nei campi, nelle fabbriche, mentre aprono negozi, bevono nelle osterie, o restano a casa a riscaldarsi davanti al camino: ignari e indifesi. D’improvviso la voce dell’uomo scompare e si ode il sibilo della bombarda.
Quando si scatenò la prima guerra mondiale il mondo non si fece trovare pronto. Nessuno immaginava cosa fosse e quale apocalisse avrebbe provocato. E.M. Remarque sopra tutti ci ha lasciato un resoconto crudo e dettagliato della sua stupefacente atrocità, fino a farci toccare quasi con mano, con un realismo quasi fotografico, le ferite sanguinolenti, i corpi tumefatti, gli occhi strabuzzati, le teste sprofondate nel fango, il puzzo delle trincee, l’umiliazione dei cadaveri e dei superstiti. “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, pubblicato nel 1929 è il pietoso manifesto di una carneficina gratuita e senza senso.
Lo stesso anno, ironia della sorte, uscì anche Addio alle armi di E. Hemingway un racconto appassionato, meno impietoso, sulla grande guerra a cui anch’egli, come Remarque, partecipò da volontario sul fronte orientale, ed in cui descrive il sentimento dell’amore e della speranza naufragare in tragedia, in disillusione e sofferenza per tanti giovani che furono sconfitti già prima della guerra “quando li hanno presi dalle loro campagne e li hanno messi nell’esercito”.
I giovani studiavano, andavano a bottega, facevano progetti, si innamoravano e andavano a ballare. La belle époque risuonava di dolci respiri, di sogni stravaganti e appassionati. Anche allora, chi ci pensava alla guerra? Non ce n’era stata nessuna di livello mondiale dai tempi di Waterloo, svoltasi cento anni prima. Non si era preparati a fare una esperienza così devastante. “La gente non aveva nessuna idea di ciò che stava per accadere” scrive Remarque. Fu un’esperienza macabra che travolse e annientò lo spirito di intere generazioni incoraggiate ad arruolarsi dall’atmosfera di sfida e di rivalsa che si era diffusa tra le fresche coscienze eccitate e fiduciose della propria audacia, del proprio slancio eroico, facendone infine un popolo di sopravvissuti e di marchiati a vita, disperati, sprofondati in un abisso di macerie.
Tutti chiesero di partecipare, ardivano difendere la nazione minacciata, combattere per i valori patriottici, sacri e sovrani, tante volte ascoltati per strada, nelle aule, nelle piazze, il Paese chiamava alle armi e un popolo di ragazzi rispose con un flusso continuo di arruolamenti che coinvolse tutti, ricchi e poveri, colti e ignoranti. Vi si infilarono mani e piedi, senza mai pensare che si potesse trattare di un inganno.
Il poeta Ungaretti si disperava all’idea di non poter abbracciare il fucile; il giovanissimo e timido Gadda chiese direttamente al Vate di intercedere per farlo arruolare; anche loro non seppero resistere alla radiosa visione di un mondo lucente e magnifico, sognavano di essere padroni del proprio destino. Invece se ne tornarono entrambi avviliti e lacerati nell’animo, lasciandoci però versi di intima bellezza (“..ma nel cuore nessuna croce manca - è il mio cuore il paese più straziato”).
Oggi gente disperata viene a galla in cerca di una vita meno aspra e complicata, si acuiscono i conflitti sociali e si restringe l’idea utopica di un benessere sconfinato e duraturo che ha sempre accompagnato l’Occidente incartatosi in una crisi economica che mette in pericolo i suoi stessi principi democratici, smarritosi in una sorta di incantesimo tra la paura del presente e l’assenza di coraggio nel dover cambiare. Nei periodi più bui e tormentati sono state le guerre e le pestilenze a resettare il mondo e fargli riprendere la strada del dialogo e della comprensione. Sarà ancora necessario aprire le ostilità per rimettere in sesto l’Occidente, risvegliare il mostro sempre in agguato della guerra, del filo spinato, dei razzi, delle granate per avere un sussulto?
Non sarebbe più prudente abbassare semplicemente i toni?