La paura di essere tagliati fuori
I bambini sono dilaniati sin dalla loro nascita da stati d’animo laceranti, da emozioni intese e da paure di ogni tipo. Sono assillati dall’ansia di sbagliare o di non sentirsi all’altezza. Crescono con la paura di essere abbandonati dai propri genitori, spesso tormentati da contrasti sanguinosi con i fratelli ed invasi da una folle gelosia nei confronti della madre o del padre, nota come conflitti edipici.
Nella maggior parte dei casi l’attenzione e l’affetto dei genitori aiutano a superare le ansie più dirompenti, prima che si trasformino in veri e propri traumi patologici che potrebbero, alla lunga, provocare danni irreparabili al loro equilibrio psichico, causa scatenante della loro futura fragilità. Ma soprattutto questi disagi, ed è ciò di cui qui ci occupiamo, potrebbero ostacolare un rapporto sano e proficuo con il mondo circostante, cioè con il mondo reale, preferendo adeguarsi ad un legame ancora più problematico, e sicuramente meno stimolante, con lo schermo piatto del digitale. La relazione virtuale sostituisce sempre più il contatto fisico, che imbarazza e mette paura, nell’illusione di non sentirsi isolati o esclusi da qualcosa di importante, di avvincente, di gratificante. Gli adolescenti instaurano con il web un rapporto simbiotico in cui aderiscono senza condizioni e senza battere ciglio, pur di sentirsi accettati e considerati. Questo stato di cose viene definito dall’espressione inglese F.O.M.O. (acronimo di fear of missing out, cioè "paura di essere tagliati fuori"). Vale a dire che si preferisce restare sempre connessi per non perdere nessuna occasione, per partecipare ad ogni evento, per non uscire mai dal vorace e intrigante circuito mediatico. Attraverso lo smartphone e il computer si marca la propria presenza. Per questo molti osservatori considerano il web alla stregua di una droga, perché si diventa dipendenti sino all’ossessione, sino a perdere il controllo delle proprie azioni. Difatti, se non sei connesso non esisti, sei tagliato fuori. In particolare i bambini salpano sulla navicella di Internet prendendo il largo, non avendo però con sé alcuna ancora di salvezza, non avendo elaborato nessuna possibile via di uscita. Ed è per questo che pur di non sentirsi trascurati, si va dietro ad ogni eccesso. Tuttavia, il timore di non riuscire a dominare gli effetti degenerativi del mondo digitale si annida e cresce nella loro mente, indifesa e ancora poco strutturata, sino a sfociare in preoccupanti stati depressivi, oppure rinchiudendosi dentro spazi angusti di intima e sofferta solitudine. Ma cosa accadeva prima di Internet? Come ci si comportava quando si doveva venire fuori da qualche seria preoccupazione, sfuggire ad un momento di avvilimento? Intanto si aveva più tempo per metabolizzare e decomprimere l’assillo che emergeva; spesso si trovava conforto in quel mondo di sguardi, di braccia, di mani, di sensibilità, ma anche di rimbrotti e di ammonimenti, che ruotava intorno alla propria esistenza, un reticolo di sollecitazioni apparentemente angusto, ma sempre premuroso. Si insinuava poi il dubbio che un momento negativo, una difficoltà ritenuta a prima vista insuperabile, poteva capitare a tutti, che si sarebbe presentata presto un’altra opportunità, magari più propizia. Alla fine si era portati a convincersi che quella minaccia, quell’inciampo, non era poi la fine del mondo. I traumi della crescita erano in questo modo attutiti o quanto meno diluiti, l’angoscia ammansita. Tutto sarebbe stato rimandato, quasi naturalmente, ad un tempo successivo. Internet invece mette fretta, non dà il tempo per recuperare l’affanno del vivere. Prima di Internet, quando si aveva un problema, non passava per la mente di comunicare all’universo intero il turbamento che aveva scosso il proprio animo. Qualcuno ancora ricorda che in un recente passato si poteva telefonare a malapena da un telefono a gettoni, ma per farlo, bisognava uscire, trovare la cabina, fare il numero, aspettare la risposta dall’altro capo del filo. Nel frattempo però si aveva il tempo di pensare, di riflettere, di calmarsi. Oggi l’inquietudine è invasiva, frastornante, si accumula in rete con l’aspettativa che gli altri ci stiano veramente a sentire, comprendere, lenire le nostre pene. Internet diventa così, suo malgrado, uno sfogatoio, un brulicante borbottio di sagome traballanti che non riconosce la nostra richiesta di aiuto, non ci riserva nessuna pacca sulla spalla. E, per giunta, non ci riconosce, prescinde da ciò che noi veramente siamo, anonimi si entra e anonimi si esce. La paura di non farcela a superare un momento di apprensione aumenta, si enfatizza e deflagra in reazioni rissose e indisponenti. Non si entra nel web da protagonisti ma da comprimari, succubi coscienti di un meccanismo effimero e gigantesco che non riusciamo a contenere, esposti al perenne giudizio degli altri. Focalizzati su internet, le paure, soprattutto nella mente dei bambini, non arretrano, ma spesso si tramutano in furiosi attacchi di panico, in devastanti paranoie che spesso sfociano, come pesanti macigni, in comportamenti violenti e incontrollabili. Insomma, dentro la vitalità compulsiva del web ci si ritrova più scoraggiati e indifesi di prima. Come ha spiegato Z. Bauman, a proposito della trasformazione dell’era moderna in una società liquida, una costante fragilità domina ormai il mondo i cui individui sono sempre di più “privati dalla protezione che veniva offerta in passato da una fitta rete di legami sociali” per cui, se non per tutti, la paura dell’inadeguatezza è diventato un “malanno universale”. Davanti agli esseri umani, insiste Bauman, non si aprono più eccitanti e seducenti vasti spazi dove poter sperimentare e praticare nuove arti, nuovi esempi di esistenza o sognare nuove opportunità per provare a migliorarsi. In realtà nel mondo moderno è in atto un’acerrima competizione ed una marcata diffidenza verso il prossimo che ha decisamente soppiantato la solidarietà ed un approccio dialettico pacifico e costruttivo tra le persone. Il grande scrittore argentino J. Borges sosteneva che non si discute per avere ragione, ma per capire. Questo principio così basilare oggi non potrebbe funzionare sul web, dove la norma è una testarda incontinenza verbale e l’acuirsi fastidioso di ogni dissidio.
Convivere con la diversità.
Il bambino che già, da par suo, si reputa il centro del mondo e cresce orgoglioso di rivendicare il diritto a far trionfare il suo narcisismo, anche ricorrendo ad esplosioni di rabbia e a manifestazioni di insofferenza, viene catturato inevitabilmente dall’atmosfera rissosa che regna sovrana sullo schermo digitale, radicandosi in lui la convinzione che solo le reazioni estreme e scomposte sono perfettamente normali, facendolo sentire sempre più ostile e intollerante, spingendolo a non accettare altri punti di vista e a non essere per niente ragionevole con ogni forma di diversità. Assorto in questo irrazionale vaneggiamento, l’estraneo, alla lunga, diviene ai suoi occhi odioso, simile ad un reietto, sarà rifiutato per il solo fatto che non ha le sue stesse idee e le sue stesse sembianze. Il rigetto di ogni diversità, caposaldo di una cultura arcaica e conformista, diventa oltremodo sprezzante e deleterio attraverso i tentacoli velenosi della rete, dove il bambino, esercitandosi in solitudine, non ha nessun confronto con gli altri. Chiudendosi al mondo diventa pure lui un estraneo, sconosciuto a sé stesso. Sappiamo che nel mondo antico l’incontro con il forestiero era regolato da sacri principi di ospitalità. La sua visita considerata essenziale, un dono divino da saper apprezzare in tutte le sue sfumature. Il naufrago Ulisse fu accolto con tutti gli onori da Antinoo, re dei Feaci, e non per benvolere da parte di Omero, ma perché si usava così. Con il tempo la sacralità dell’ospite è stata ridimensionata, respinta in nome di una visione manichea, integralista, che respinge l’intruso per proteggere i propri interessi materiali o, peggio ancora, il supposto sistema valoriale messo in pericolo. Nel 1901 Joseph Conrad pubblicò una novella dal titolo “Amy Foster” che racconta la storia di un emigrante proveniente dalla zona montuosa dei Carpazi e diretto in America, la cui nave, lungo il tragitto, naufraga sulle coste dell’Inghilterra. Si rifugia dentro un piccolo villaggio senza sapere né il luogo, né la lingua, né tantomeno i costumi dei residenti che continuano a guardarlo con sospetto e diffidenza, respingendolo come un vagabondo e un potenziale ladro. Ma capita un fatto strano, inaspettato. Un abitante eccentrico del posto gli offre un lavoro nella sua fattoria e cerca di inserirlo nella comunità. Lo straniero che mostra di avere un cuore buono e semplice si innamora di Amy Foster, una domestica che le aveva mostrato un po’ di gentilezza. I due si sposano nonostante la disapprovazione della comunità. Tutto procede per il meglio. Hanno un figlio e sembrano una coppia affiatata e felice. Diversi mesi dopo Yanko, come si chiama lo straniero, si ammala gravemente e, febbricitante, inizia a delirare parlando ancora una volta nella sua lingua madre. Amy, spaventata dai vaneggiamenti del marito, fugge da casa portando con sé il piccolo. La mattina dopo Yanko viene trovato morto. Si scoprirà poi che le parole giudicate incomprensibili che egli aveva proferito altro non erano che la richiesta di un po’ d’acqua. Quando le parole dell’altro sono scambiate per insulti e ci si rifiuta di comprenderne il senso vuol dire che l’odio e la sopraffazione prevalgono sul dialogo e la bontà umana. Lasciare che i piccoli risolvano i grandi disagi psichici della crescita dentro il macrocosmo dissacrante del web, dove prevalgono sentimenti sinceramente astiosi, per non dire apertamente ostili verso gli altri, significa trascinare il loro inconscio, insicuro e spaurito, su un crinale di chiusura mentale e di ottuso fanatismo che li accompagnerà negli anni della sua formazione individuale.
La fiaba Il brutto anatroccolo scritta da Hans Christian Andersen mette in risalto la tenacia che serve per farsi accettare dagli altri, e allo stesso tempo, fa capire come sia fondamentalmente giusto mostrarsi inclusivi e rispettosi verso ogni forma di diversità. La fiaba inizia con la deliziosa immagine di un nido di anatra dentro cui si schiudono una dopo l’altra tutte le uova, uscendone tanti bei pulcini, tranne uno che ha bisogno di essere covato più a lungo per venire fuori. Ci sarebbe da pensare che quest’ultimo anatroccolo tardava ad uscire perché già presagiva, prima di nascere, una qualche complicazione! “Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò. «È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!». Il brutto anatroccolo si accorge subito che non ci sono braccia aperte per lui e, con il passare del tempo, rimane profondamente turbato dal fatto di non essere accettato dai suoi coetanei che lo prendono ripetutamente in giro per il suo aspetto da tacchina, grossa e molto buffa. Così cercano ogni pretesto per allontanarlo dal gruppo, lo maltrattano e lo insultano continuamente, i più grandi addirittura lo beccano sul collo. Tanta è l’apprensione che non sa neppure lui quale sia la sua vera natura. Si sentiva un derelitto, abbandonato al suo destino. Alla fine fu costretto ad andare a nascondersi in un posto lontano, meno malvagio, per tenersi fuori dalle angherie e dai soprusi dei suoi stessi parenti, dei suoi amici. Un mondo migliore esiste davvero, bisogna solo scoprirlo. Per certi aspetti ricorda un famoso fumetto trasmesso nel Carosello degli anni sessanta che disegnava le avventure del pulcino Calimero: In una fattoria ambientata nella campagna veneta, Calimero viene respinto e discriminato dalla compagnia degli altri pulcini bianchi per via della sua somiglianza proprio ad un brutto anatroccolo. Eh che maniere, protestava, tutti mi trattano così perché sono grandi ed io piccolo e nero. Al culmine della sua disperazione interviene la bella olandesina che lo salva e lo pulisce, dimostrandogli che non è realmente nero, e quindi diverso dagli altri pulcini, ma solo sporco. Perciò da piccolo e insignificante che era, alla fine ritrova il sorriso e la sicurezza in sé stesso, superando la perfidia del mondo crudele che gli ruota intorno. Noi bambini andavamo a letto contenti e soddisfatti, pacificati, sapendo che al mondo c’è posto per tutti e che la cattiveria non vince mai. Anche il brutto anatroccolo, poco alla volta, prende coscienza della sua identità, reagendo alle persecuzioni, senza scomporsi, senza aggredire gli altri, ma puntando sulle sue doti, sulle sue potenzialità. Questa fiaba trasmette il coraggio di reagire alle avversità, alle prove difficili della vita, senza rabbia o aggressività nei confronti degli altri, senza deprimersi, ma convincendosi piano piano che ognuno ha una sua dignità e può far emergere il proprio talento. E, naturalmente, fa riflettere sul fatto che essere diversi non solo è una legge naturale, come uno è sempre differente in qualcosa da un altro, ma che rispettando il diverso da noi, non prendendolo in giro e non perseguitandolo, non avendone paura, si può essere migliori. Il brutto anatroccolo guardando la sua immagine proiettata nell’acqua limpida del laghetto si accorge di somigliare ad un meraviglioso cigno reale …“Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco”.
Perché ai bambini piacciono le storie paurose.
Per quanto possa apparire strano e paradossale, i bambini adorano le fiabe truci, traboccanti di crudeltà, quanto più oscure e ingarbugliate possibili, perché la loro narrazione li mette in guardia, iniziano a percepire i motivi scatenanti di tanta malvagità, ne intuiscono gli sviluppi, ne captano le conseguenze. Partecipando loro stessi alla lotta tra il bene e il male, elaborano e controllano le paure, senza rincorrerle o ingigantirle. Se le paure non le scoprono dalle fiabe, comunque se le inventeranno da soli, e allora i guai potrebbero diventare più seri. I bambini si appassionano senza battere ciglio a queste storie intrise di eventi cruenti e raccapriccianti degni di una pellicola horror, per abituarsi a governare i subbugli tumultuosi che animano la loro crescita. A differenza di ciò che imparano dal web, dove la paura viene amplificata a dismisura, e dove, inevitabilmente, la rabbia e l’odio vengono rappresentati come uniche valvole di sfogo, l’ascolto di una fiaba aiuta il bambino ad orientarsi nella giungla angosciante del suo percorso di crescita e ad affrontare conflitti interiori con una chiave di lettura chiara e semplice in cui riesce a trovare le giuste direttive per osservarla e metabolizzarla. Il lieto fine lo rasserena e lo convince che una vita lieta e gratificante è possibile per tutti, anche senza odiare nessuno e senza discriminare il prossimo, lo incoraggia a convincersi che c’è un altro modo per reagire alle asperità della vita, prende atto che la strada da percorrere a volte risulta perigliosa e lastricata di avversità, come quella battuta dai protagonisti del racconto con cui egli si identifica. Una strada che lo porta a rafforzare sé stesso. Il bambino sa che, le difficili traversie vissute dal protagonista sono passaggi necessari, seppure terribili, che tuttavia non lo abbattono, ma lo rincuorano; fortificando il suo animo di fanciullo, finiscono perciò per assumere una funzione fondamentale per la sua maturazione psichica ed insegnano che è possibile, alla fine, vivere felici e contenti. Nella fiaba vi è la certezza che ogni difficoltà può essere superata ed ogni ansia risolta, come scrive la psicologa Simona Di Paolo egli “comprende che diventare grande significa dover affrontare compiti difficili, ma anche vivere avventure meravigliose”. La crescita intellettuale del bambino, sin dai tempi remoti, è passata attraverso racconti, suggerimenti e confidenze orali, storielle adatte a convogliare le sue emozioni e a fargli superare i suoi momenti di crisi e di difficoltà. Nell’ascoltare stupito e inebriato una fiaba il suo inconscio diviene teatro di avventure e di dispute sconvolgenti perché è anch’egli presente sulla scena, si confronta con il lupo cattivo, viene perseguitato dalla matrigna, minacciato dalla strega, combatte il drago dalle sette teste, esulta per le gesta audaci compiute dal giovane principe. In questa grande e immaginifica arena egli diventa protagonista, sente palpitare dentro di sé brividi di trepidazione e di gioia, fa esperienza diretta della paura ed impara a tenerla lontana. Il bambino dentro la fiaba si sente abbandonato e ritrovato, intrappolato e liberato, oppresso dalle forze del male e difeso dalle forze del bene, che alla fine trionfano, alimentando nel suo animo la fiducia e la sicurezza, respingendo l’odio e il risentimento. Tutto accade in modo semplice e naturale, comprensibile. Sente addosso il calore dei propri simili, osserva la natura che lo circonda, prende i primi contatti con la vita reale, inizia a dare un nome alle cose. Niente di simile può essere avvertito attraverso le onde fredde e, per certi versi, dispotiche del web. Da questo punto di vista la fiaba di Pollicino scritta da Charles Perrault e tradotta per la prima volta in italiano da Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, si presenta davvero affascinante e piena di pathos. Qui si narra la brutta avventura capitata a sette fratelli abbandonati nel bosco dai propri genitori che, a seguito di una carestia, decidono, non senza qualche esitazione e scrupolo di coscienza, di sbarazzarsi dei propri piccoli, per non morire di fame. Anche qui Pollicino viene descritto come un piccino molto piccolo che “era molto delicato e non apriva mai bocca, sicché si scambiava per grulleria quello che era un segno di bontà di cuore. Era piccolissimo, e quando venne al mondo non era mica più grosso del pollice, ed è perciò che lo chiamarono Pollicino” I sette fratelli ricevono l’aiuto inaspettato direttamente dalla orchessa disposta a nasconderli dalla vista dell’orco cattivo, mentre Pollicino si prende in carico la sorte dei propri fratelli. Il rifiuto dei genitori e l’abbandono assumono nei bambini scansioni diverse, osserva Jean Gaudreau, certe volte basta un rimprovero, un’occhiataccia, la minaccia verbale di prendere severi provvedimenti per offuscare la mente fragile del bambino e “produrre rifiuto, abbandono, isolamento affettivo”. Ed anche se i bambini non vengono più «smarriti» nella foresta, tuttavia non ci si occupa di loro come si dovrebbe, per cui l’omissione, persino la trascuratezza, può essere percepita come abbandono. Una fiaba come Pollicino può aiutare a far capire come difendersi dal subbuglio emotivo che nasce dalla paura dell’abbandono, dalla noncuranza dei genitori o dal timore di sentirsi privati dalle loro cure. Pollicino è l’esempio più appariscente che attraverso il coraggio e il proprio ingegno, nelle difficoltà e nell’imminenza del pericolo, reagisce alle disavventure della vita, senza essere precipitoso o andare nel panico, ma raggiungendo una sicurezza tale da poter realizzare una grande e insperata impresa. Fratelli miei, non preoccupatevi, io so come riportarvi tutti a casa, seguitemi! Portando in salvo i propri fratelli riscopre sé stesso, aumentando la propria autostima. Hansel e Gretel potremmo definirla la versione tedesca di Pollicino, anche se qui si trovano in due ad affrontare eventi terribili, pericoli da far rizzare i capelli, fatiche inenarrabili, accompagnate da lancinanti morsi della fame. Non per niente Philipp Pullman ha definito questa fiaba una storia indimenticabile ed “un grande classico di spietatezza”. In entrambe le fiabe, spaventose ma anche rocambolesche, che suonano come una delizia nelle orecchie dei bambini, si ritrovano molte delle cause che provocano le paure infantili, come la paura di morire di fame, la paura di essere mangiati, la paura di essere soffocati, la paura di sbagliare e, naturalmente, la paura di essere respinti e abbandonati. Sia Pollicino che Hansel e Gretel sono storie straordinarie che rimangono impresse nella memoria di ogni bambino e dove la continua incertezza viene raccontata con la freddezza di un thriller, in cui i protagonisti reagiscono alle insidie con una calma sorprendente, sfidando la sorte che gli è toccata con un impegno e una lucidità esemplare, con una tenacia inaspettata, analizzando e mettendo in campo le migliori strategie in grado di scongiurare il peggio. Con queste armi, nel mentre Pollicino porta in salvo i propri fratelli, il bambino si sente al sicuro e può dormire tranquillo. I veri benefici che egli trova per lo sviluppo della sua personalità sono legati all’osservazione di questo atteggiamento certamente scaltro, ma allo stesso tempo controllato, che non divampa mai in rabbia scomposta, in ferocia. Il bambino assorbe questa grande verità dalla fiaba, cioè quello di non darsi mai per vinto, di imparare a gestire situazioni complicate, di decidere da solo, con la propria testa, quale strada intraprendere, quali espedienti escogitare per raggiungere l’obiettivo, come quello di mettersi in coda al gruppo e cospargere il sentiero di sassolini da far scivolare dalle proprie tasche, oppure quello di scambiare i loro berretti con le coroncine delle piccole orchette, ma che bisogna arrivarci con pazienza e con decisione, senza assumere comportamenti spigolosi ed irritanti. E non di meno alla fine condivide con i fratelli e i genitori la felicità di uscire vittorioso e soddisfatto, al di là delle ricchezze che riesce a portare a casa. Nella versione riscritta dai Fratelli Grimm, alla fine delle sue disavventure, Pollicino torna a casa dai genitori sano e salvo e quando il padre gli chiede dove sia stato tutto questo tempo egli risponde: “Sì, babbo, ho girato il mondo in lungo e in largo, grazie a Dio respiro di nuovo aria buona! Ma dove sei stato? Ah, babbo, sono stato in una tana di sorcio, nella pancia di una mucca e nel ventre di un lupo, adesso rimango con voi. Il padre gli risponde: E noi non ti venderemo più per tutto l'oro del mondo”. Il bambino rimane estasiato da questo bel finale, semplice e accattivante, ma anche molto istruttivo. Identificandosi in Pollicino e attratto dalla sua scaltrezza, sa di poter crescere sereno e fiducioso, capisce che la realtà non è sempre sgradevole e sconfortante e che le paure che turbano i suoi sogni possono essere vinte e superate se affrontate a viso aperto. Contrariamente, le seducenti promesse suscitate dalle onde melliflue del web, come le sirene di Ulisse, possono al più regalargli un conforto velleitario e temporaneo, a buon mercato, senza riuscire a scrollargli di dosso le paure che invece, ampliate a dismisura, continueranno a pesare, come grossi macigni, sulla sua crescita psichica.
La solitudine e la malinconia
In verità ci sentiamo tutti, grandi e piccini, un po’ trovatelli al cospetto di internet, anche se il bambino vi entra dentro con particolare veemenza e senza nessuna ciambella di salvataggio, ipnotizzato dai suoi richiami assillanti e un po’ dispotici, nella speranza di ritrovare un po’ di affetto e di riconoscenza, o forse un buon medicamento capace di curare le ferite che mano a mano si schiudono dentro il suo animo impaziente e vulnerabile. Purtroppo in rete è più facile che trovi invece farmaci tossici o scaduti, che eccitano i suoi peggiori impulsi, discriminano il proprio ego, gli alterano di continuo i toni dell’umore. Nel libro “Melancolia” dello scrittore rumeno Mircea Cartarescu c’è un racconto breve, intitolato I Ponti, in cui un bambino rimane chiuso da solo in casa, mentre la madre esce per andare a fare la spesa e sembra che non debba mai più tornare. Il tempo, proprio come accade dentro le fiabe, si dilata e diventa sfuggente (poiché ogni cosa dal momento dell’abbandono era rimasta muta e paralizzata, e il bambino aveva perduto da tanto il senso del tempo). Passano giorni e notti, mesi e anni, (sempre uguali, sempre diversi) le stagioni si alternano in un batter d’occhio; egli scruta, appoggiato ai vetri della finestra ricoperta di brina, la magica luce della luna, rincorre il manto splendente delle stelle, va alla scoperta di un mondo fantastico, dilatato, inaudito, che non riesce a governare e fare suo, perché ha l’anima inquieta e afflitta, segnata da un vuoto interiore per l’assenza incolmabile della madre, la cui mancanza gli preclude ogni contatto fisico con il mondo reale. Non è disperato, ma scontento, scoraggiato, immerso in una struggente malinconia, con addosso un vago senso di smarrimento che lo fa vivere in un tempo indefinito, voluminoso, scostante, senza punti di riferimento, un tempo senza tempo, di trasbordante mestizia. Quando alla fine del racconto appare la madre con la spesa tra le mani, il bimbo finalmente si lascia andare ad una gioia incontenibile e ad un pianto liberatorio. Il tempo di vivere per lui è ricominciato, scalpita tra le braccia accoglienti della madre, che l’accolgono, pronti a proteggerlo e ad incoraggiarlo a superare momenti cupi che angustiano la propria vita e mettono in discussione la propria identità. A differenza del senso di noia che proprio nell’atto dello svuotarsi, nel raccoglimento interiore, genera la creatività e produce nuove scoperte, la malinconia è un’amara conseguenza della latitanza di calore affettivo. Nella fiaba La Guardiana delle Oche dei Fratelli Grimm una principessa subisce un umiliante raggiro da parte della sua damigella che la priva del suo rango, si sostituisce a lei nei vestiti, le ruba il cavallo parlante di nome Falada e si sposa con il principe, riservando per lei la degradante funzione di guardiana delle oche. Nonostante tutto non si fa trascinare dalla sorte avversa, non vuole precipitare in un abisso chimerico e sconfortante, come il bambino di Melancolia, né dà in escandescenza dichiarando guerra a tutto e a tutti. Piuttosto, per riappropriarsi della propria reputazione calpestata, reagisce con una fierezza e una dignità senza pari. In una situazione così disperata, rimasta sola e senza alcuna protezione, sarebbe stato persino comprensibile perdere la calma e battere i pugni con furia. In realtà andare nel panico in certi momenti della crescita può portare a conseguenze ancora più traumatiche, per paura di non potercela fare, di non saper governare il proprio destino, di non avere la forza di uscire da una situazione dannosa, che rischia di trasformarsi in sciagura. Come nel bambino di Melancolia arriva un momento, improvviso e deflagrante, in cui le prospettive della propria vita si capovolgono. Dov’è finita la mamma? Ritornerà? Riuscirò ad essere felice, ad uscire da questo incubo, da questo sortilegio? Parallelamente nella fiaba da un momento all’altro la principessa è costretta a diventare guardiana delle oche. Ma non si perde d’animo. Tuttavia sente quanto sia inutile cavalcare la paura e quanto sia importante accettare che il male, la sua potenza distruttiva, si presenti nelle faccende della vita, e quanto sia necessario cercare di combatterlo con tenacia e consapevolezza, con la speranza che tutto si svolga a proprio favore. La guardiana delle oche resta in ascolto della sua forza interiore qui rappresentata dalla testa del cavallo parlante, con cui ragiona e si confronta, e che la sostiene nel rimuovere tutti gli ostacoli che portano al lieto fine. A rasserenare il bambino di Melancolia e la Guardiana delle oche dalla paura di essere sopraffatti dalle imboscate incontrate sul proprio cammino sono la fiducia e la sicurezza che ritrovano uno nell’abbraccio caloroso della madre e l’altra nella parola magica sussurrata dalla testa del cavallo, che gli fanno da scudo e l’accudiscono, rilevandone la loro vera identità, sottraendo entrambi “dalle raffiche della paura e della solitudine”.
L’importanza di trovare sostegno nelle persone care
Abbiamo visto come i bambini, lasciati soli tra le grinfie del web, non potrebbero mai trovare, lì dentro, il sostegno di persone in carne ed ossa che condividono con loro gioie e dolori, non incrocerebbero in nessun modo lo sguardo vigile e protettivo di qualcuno che sappia indicare loro la strada da percorrere, che tiene alla loro felicità più di ogni altra cosa e che non li abbandonerebbe mai, che li tirerebbe fuori da situazioni drammatiche e li tenesse per mano nella faticosa, e affascinante, costruzione della loto personalità. In una tra le fiabe russe più famose, Vassilissa la Bella, di Aleksandr N. Afanasjev si susseguono momenti di panico e momenti di speranza. La madre prima di morire affida alla piccola Vassilissa una bambola che aiuterà a rincuorarla nei momenti di massimo pericolo. Un bell’aiuto che la sosterrà in seguito contro le insolenze della matrigna, la gelosia delle sorellastre e i malefici della strega, la baba-yaga russa. L’invocazione della protezione divina è stata affidata nel tempo a qualche statuetta di terracotta, icona o immaginetta, da tenere sempre a portata di mano e a cui rivolgersi per un consiglio o una supplica. Vladimir Propp ha sostenuto che bambole di questo tipo fungevano da sostituto di chi era morto, una sorta di anima del defunto a disposizione dei parenti vivi che l'avevano amato. La bambola è la proiezione simbolica della defunta madre volata in cielo troppo presto. Nelle fiabe i riferimenti storici o mitologici non mancano mai. Nell’antica Roma si teneva in casa una piccola edicola con l’altare al cui interno venivano esposte delle statuette di argilla, chiamate sigillum, che rappresentavano proprio i Lari, ovvero gli dei che incarnavano i propri antenati. Queste statuine di solito si regalavano a vicenda nei giorni dei Saturnalia, l’antico Natale romano, e servivano a proteggere i membri della casa in qualsiasi occasione, quando si era in partenza per un viaggio, quando ci si sposava, quando si partiva per la guerra. Vassilissa si tiene stretta la bambola pronta ad infonderle uno straordinario coraggio per tenere testa alla strega nella sua dimora nel mezzo di un bosco, con ossa e teschi umani. Anche qui la vicenda che si racconta è davvero terrificante. La bambina entra nei panni di Vassilissa e vive insieme a lei un’esperienza drammatica, affronta tremende peripezie, ma sempre avendo come pensiero fisso il lieto fine. Nel frattempo impara a confrontarsi con lo strumento magico affidatogli dalla madre, cioè la bambola, di cui si può fidare ciecamente, più di ogni altra cosa, e che in un momento di grave pericolo le dà coraggio e le infonde sicurezza. La fiaba anche in questo caso lavora ai fianchi della paura e la sottomette, la inclina, la mortifica, mentre esalta il valore della tenacia e della forza d’animo. La bambina, assieme a Vassilissa, esce dalla casa della strega cresciuto nella propria coscienza, convinto che se si ha un’anima buona, paziente e comprensiva, le forze del male arretreranno e persino la strega cattiva sarà costretta a fare un passo indietro. La strega si rivolge a lei in questo modo: “E adesso è il mio turno di farti una domanda: come fai a fare tutti i lavori che ti assegno?” Vassilissa le risponde: “Con la benedizione della mia mamma che mi viene sempre in aiuto, signora.” “Ah, è così, allora? Ebbene, ragazza benedetta, vattene, vattene subito di qui! Non ne voglio, di benedetti, in casa mia!”. In questa fiaba la paura viene domata con le armi della dolcezza e della fierezza, senza atteggiamenti grossolani e arroganti, senza aver mai mostrato segni di disprezzo o di superiorità. Ma soprattutto facendo un costante affidamento sulla guida e sulle cure amorevoli di una persona fidata. Finiti nella tempesta, in sella al suo cavallo un bambino di nome Abel, segue nel buio e nella pioggia il padre, ma non riesce a stargli dietro. E’ preoccupato. Allora prega il suo cavallo Red di non perderlo di vista, gli spiega come per lui sia importante “la presenza di quell’uomo che ancora per un po', non so quanto, conosce ciò che ignoro ed è per me la pietra solida su cui appoggiare la mia immaginazione mentre costruisco l’uomo che sarò”. Come abbiamo visto, nella fiaba, al contrario di ciò che accade nel web, i bambini non si sentono mai soli, ed in solitudine, nel fronteggiare la paura e sbrogliare i complicati tumulti della loro fragile mente.