Non c’è dubbio che queste adunate di camice nere con braccia tese e intrepide invocazioni al duce saranno sempre più frequenti, anzi aumenteranno di intensità, anche perché, come ha ricordato Edith Bruck, non sono per niente sgradite, se non tacitamente autorizzate, da questo governo.
La storia non si ripete mai alla stessa maniera, ma ciò non significa minimizzare le inequivocabili avvisaglie di una ritrovata consapevolezza da parte di una frangia scalmanata di “arditi” in cerca di una rivincita clamorosa, dopo decenni di rintanamento nei lugubri anfratti della storia recente. Purtroppo, in parallelo, dovremo anche rassegnarci a sopportare le miserevoli sceneggiate di una classe politica dimostratasi sin dall’inizio di questa legislatura insufficiente e sfrontata, priva di scrupoli, famelica di appetiti, mentalmente addestrata ad esercitare qualsiasi forzatura politica pur di esacerbare gli animi, azzannare l’area dei diritti civili, sventolare, come nel ventennio, i labari gloriosi delle vestigia della Roma Imperiale.
Ma i valori dell’antica Roma, quelli che ci hanno fatto diventare padroni del mondo, come scrive nel suo libro Aldo Cazzullo, sono difficilmente replicabili. L’Impero Romano fu una grande epopea di uomini fecondi, con una tempra virile e coraggiosa, che seppero modellare una società dinamica e risoluta, venerata allora e riconosciuta ancora oggi, costellata da gesta leggendarie e non da volgari buffonerie. Muzio Scevola per uno sbaglio ci rimise il braccio con una dignità esemplare, mentre nella notte brava di Capodanno non si è riusciti ancora a capire chi impugnò l’arma e chi la fece esplodere, mostrando un atteggiamento codardo e omertoso, degno della più goffa fascisteria. Roma si fece strada e trionfò attraverso la capacità di una classe dirigente che andava a viso aperto a scoprire le idee degli altri, per comprenderle e impossessarsene; per generare idee migliori. Portò dentro le proprie mura migliaia di cittadini per assorbirne i costumi, le convinzioni religiose, l’esperienza, i mestieri e i saperi. Con l’editto di Caracalla, ricorda Cazzullo, si concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero che diventarono a tutti gli effetti romani non per ambigua generosità, ma perché lo si ritenne giusto e conveniente. Ciò significa che non solo con l’esercizio delle armi e attraverso le vittorie militari, ma anche con il viatico dell’intelletto e la consistenza morale si è compiuto il destino millenario della civiltà romana. Per emularli non basta sentirsi loro eredi solo perché si frequentano gli stessi luoghi, né può bastare l’esibizione di riti squadristici accompagnati da croci celtiche o, come spesso avviene nell’esuberanza degli accoliti, dando sfoggio di un lessico volgare e retrivo, volutamente machista ed omofobo. I popoli antichi, pur assoggettati, amavano Roma perché dava, a chi la sceglieva come dimora, la speranza di poter contribuire a costruire un mondo migliore. Certamente non ci sarebbe stata una grande Roma senza Cesare e i suoi pretoriani, ma non sarebbe durata sino ai giorni nostri se non ci fossero stati Virgilio e Orazio, senza l’amore per l’arte, la sua proverbiale multietnicità e mescolanza di razze. Non sarebbe stato possibile diffondere la propria egemonia culturale se avessero pensato di farlo solo assegnando qualche incarico pubblico a funzionari inesperti e corrotti nei vari angoli dell’Impero, come cerca disperatamente di fare questo governo, pensando di poter imporre la cultura invece di frequentarla. Lo dice bene in una intervista Marino Sinibaldi appena sostituito al Centro della Lettura: «Il loro mondo è un piccolo cerchio asfittico di persone con gusti molto simili che mettono a repentaglio il pluralismo, senza lasciar spazio alle diversità che è il concime della cultura”. Ed invece abbiamo un ministro che dopo aver fermato con un atto di imperio un treno pubblico ha dichiarato in modo placido e tracotante: “Ho ritenuto di chiedere una fermata straordinaria senza la pretesa di un trattamento di favore”, denotando una preoccupante carenza di sensibilità civica e compostezza istituzionale, ma richiamando piuttosto l’esilarante scena dell’arrivo alla stazione del gerarca fascista nell’Amarcord di Fellini. Oggi nessun esponente di FdI e men che meno la premier Meloni si sente di avviare una revisione storico-culturale di quello che fu e rappresentò il fascismo per il nostro Paese, proprio perché si sentono a loro agio nel parodiare in modo spavaldo e gigionesco il triste ventennio, piuttosto che assolvere ai propri doveri verso la Patria con la stessa decorosa rispettabilità della Roma antica, dove anche i famigli venivano sottoposti a dure prove, forse più di altri, prima di poterli classificare come meritevoli e adeguati a ricoprire incarichi di maggior rilievo. Insomma, proprio non vogliono essere sdoganati, si piacciono così, fermi alla vanagloria del ventennio. Ed è proprio questo che ci deve preoccupare.