Il pudore, come la riservatezza, è un sentimento che la natura ci mette a disposizione per difenderci da situazioni emotive percepite come oscure o sgradevoli, che non riusciamo ad accettare, che turbano la nostra sensibilità. Tuttavia nell’epoca di internet è difficile respingere o solamente resistere all’ingombrante diluvio di scene o immagini che irrompono improvvise e spiazzanti nella nostra vita,
ed a cui inconsapevolmente ci concediamo, forzando il limite di ciò che riteniamo giusto e tollerabile. Nell’immenso palcoscenico del web vige il principio che quanto più ci si esibisce, tanto più ci si sente realizzati e valorosi. Nella realtà, il comune senso del pudore è completamente sparito ed insieme ad esso quel collante valoriale fondato anche sulla discrezione che custodiva il pilastro portante di ogni processo formativo. Una volta rotti i freni inibitori i rapporti sociali si sono trasformati in un marasma avvolgente in cui ognuno è legittimato a spararla sempre più grossa o a mostrarsi in pose spesso esagerate se non sfacciate. Il filosofo Umberto Galimberti fa derivare il termine vergogna direttamente da “vereor gognam”, cioè temo la gogna, l'esposizione. Proprio perché l'esposizione non la si teme più, la vergogna ha perso la sua rilevanza sociale, non essendo più un sentimento attrattivo. Tutto è palese, tutto è opportuno. Ognuno si comporta come meglio crede, esponendosi nelle forme più o meno trasgressive, sempre disponibili e pronti a mettere in piazza gli episodi più privati, senza preoccuparsi tanto degli effetti indesiderati o distruttivi sulla psiche degli altri, senza temere giudizi o prediche morali, anzi ricavandone un’irresistibile godimento, amplificato dalla potenza spropositata di Internet. E’ cresciuta l’idea che tutto si può far vedere e può essere offerto alla vista e con essa la propensione a farsi vedere e a farsi guardare, cioè a mostrarsi senza turbamento, né imbarazzo. Siamo arrivati al punto, scrive Raffaele Simone, che le “persone vergognose” sono incomprese, fraintese, oggetto di stupore, tacciate spesso di inconcludenza, mentre quelle “svergognate” vanno incontro alle maggiori fortune. Insomma “della vergogna può capitare di doversi vergognare”. Sparita la vergogna si concede il proprio corpo al mondo e quindi si decolora sia il corpo, sia il mondo.
Nella fiaba invece, anche quando vengono a galla comportamenti vanitosi o superbi, alla fine questi sono sempre censurati e condannati. Tutto finisce bene non solo riguardo a re e principesse, maghe e fatine, ma anche a persone semplici e dignitose che però sappiano mostrare coraggio, sfidare il destino con la forza del riserbo e dell’empatia verso il prossimo. Nella fiaba nessuna personalità disturbata, che sobilla, che si esalta senza provare neppure un briciolo di vergogna, può risultare vincente. I bambini si appassionano alle azioni temerarie compiute dai loro eroi soltanto questi se non appaiono supponenti o se non feriscono la sensibilità degli altri. Questo non significa che nell’età dell’adolescenza non conoscano cosa sia la vanità o che non si esaltino nell’esibirsi davanti ai propri familiari, ma questo è un faticoso percorso di crescita che li vede impegnati in una costante ricerca della propria consapevolezza, attraverso l’approvazione e l’apprezzamento degli adulti. Non avendo lo schermo davanti per pavoneggiarsi, compiacendosi e fremendo nell’attirare su di sé qualche like, il bambino si confronta con la presenza di un pubblico vero e attivo, che tiene lo sguardo fissato sul suo viso, i cui sorrisi e incitamenti lo aiutano a correggersi, a migliorarsi, ad acquisire sicurezza nei propri mezzi. Nelle fiabe il tarlo dell’esibizionismo è attentamente controllato. Per esempio viene sanzionata la vanità crudele della matrigna di Biancaneve che guardandosi allo specchio rinnova un quesito malevolo e irritante, mentre in Cenerentola viene sottolineata la semplicità, la mitezza come fondamento su cui poggia il suo desiderio di riuscire nella vita. La favola di Cenerentola racconta appunto come non sia necessario sgomitare in modo impudente per venire a galla, per emergere nella vita, laddove parrebbe sufficiente affidarsi ad un pizzico di pazienza e di accortezza, ed essere animati da una grande forza di volontà e determinazione. Piena di fiducia e senza timore, la fanciulla si veste e si trucca per andare al ballo dove spera di incontrare il principe azzurro, decisa a conquistare l’amore, ma lo fa senza dare nell’occhio, senza tanti smancerie o posture leziose, lavora con intelligenza, si muove sottotraccia per realizzare il suo sogno e fare in modo che questo sogno sia impagabile e non effimero. Crede veramente in questo proposito e lo persegue con dignità, senza eccessi e senza calpestare qualcuno, sottraendosi allo schiamazzo pubblico e ai pettegolezzi della gente. Cerca di costruire la propria affermazione in silenzio, quasi estraniandosi, senza tracotanza, anzi trasformando la gelosia e l’invidia delle sorelle e della madre, che la umiliano e maltrattano incessantemente, in ammirazione per il suo fascino e la sua eleganza. La sua forza interiore, la sua tenacia, vengono premiate. Il bambino che ascolta la fiaba si nutre della grandezza di questo comportamento e percepisce che il vero riscatto si manifesta solo quando riesci ad affermarti senza esagerazioni e senza odiare nessuno, diversamente da ciò che si apprende dal web dove la nobiltà del sogno si infrange contro il dilagare di una furiosa competizione, della spinta alla contrapposizione e allo scherno verso gli altri. Il bambino ha bisogno di essere sempre rassicurato per non disperdere la sua ricchezza interiore e continuare a credere in sé stesso. Cenerentola perdona le sorellastre e le fa vivere accanto a lei felici e contente. Se, alla fine, non mena vanto per la sua impresa, se non è malvagia e spocchiosa, anche lui non lo sarà.