L’affermazione della neo-presidente di Arpa Lombardia che esclude l’attività umana come fattore decisivo del cambiamento climatico appare davvero stupefacente se non altro per la funzione da lei ricoperta dentro un Ente preposto al monitoraggio e alla tutela dell’ambiente, alla promozione della sua sostenibilità. Nel nostro Paese siamo purtroppo ancora fermi ad affermazioni come questa secondo cui i sempre
più frequenti fenomeni metereologici, come il nubifragio che ha devastato la Toscana, i quali non sarebbero frutto del pervicace predominio dell’uomo sulla natura, ma fanno parte della normale evoluzione climatica in atto da varie ere geologiche, cioè “da quando la Terra esiste”. Nondimeno bisognerebbe precisare che la presenza dell’uomo nelle passate ere geologiche era minima, se non insignificante, mentre la sua attività è iniziata a manifestarsi all’incirca diecimila fa con la lavorazione della terra, la costruzione di villaggi e di imbarcazioni, fermo restando che in questo periodo le condizioni atmosferiche si sono mostrate comunque stabili, senza pregiudicare l’equilibrio ecologico del pianeta. Solo dopo l’avvento della Rivoluzione Industriale e l’uso scriteriato dei combustibili fossili i disastri ambientali da sporadici e locali sono diventati sempre più insistenti e su vasta scala.
In realtà è stato James Hansen, climatologo di fama mondiale, a testimoniare per primo nel 1988 davanti al Congresso degli Stati Uniti di essere sicuro al 99% del reale trend verso il riscaldamento collegato all’attività umana. Si è passati dal rispetto e dall’adorazione della natura che l’uomo considerava madre, genitrice, fonte di vita, allo sfruttamento demenziale di ogni sua risorsa. Probabilmente si tratta di un limite psicologico radicato negli esseri umani quello di dichiararci incapaci di sacrificare le nostre comodità presenti per prevenire una condanna imposta alle generazioni future, senza sapere che così facendo non proteggiamo affatto i nostri interessi, perché alla lunga, se non interveniamo, questo saccheggio sconsiderato delle risorse naturali del pianeta nuocerà anche noi. Il fatto è che quando apriamo il rubinetto per lavarci le mani non ci chiediamo mai da dove arriva l’acqua e se potremo avercela per sempre. Ma di certo non possiamo più aspettare il giorno in cui aprendo il rubinetto non la vedremo più scorrere per porci il problema. Una ragione della tardiva presa di coscienza di quanto sia grave il degrado ambientale sta nello sfasamento temporale tra le nostre azioni quotidiane e le reazioni ritardate del pianeta per cui, non collegando causa ed effetto, nell’immediato, tendiamo a banalizzare i rischi e i danni, mentre nel frattempo l’impazzimento del clima è già in atto.
L’esistenza quotidiana è poi sempre più scollegata dai luoghi fisici in cui viviamo, il mondo lo passiamo in rassegna attraverso il portale dei computer o le app del telefonino per cui è difficile rendersi conto degli effetti catastrofici di una calamità in zone del mondo a noi distanti, che non frequentiamo e che non pensiamo mai possano verificarsi davanti ai nostri occhi. Anche perché il cambiamento climatico si rivela molto lentamente per destare preoccupazione. Naomi Klein ne “Il mondo in fiamme” descrive questo processo con l’occhio di chi sta viaggiando a bordo di un treno superveloce che sfreccia attraverso la campagna e sembra che tutto quello davanti sia fermo, solo perché si muove ad una velocità talmente bassa rispetto al treno da sembrare immobile; il clima che cambia è come il panorama fuori dal finestrino che rispetto al nostro punto di vista in rapido movimento può sembrare statico, ma è un lento progresso che si può misurare in base all’arretramento delle calotte polari, al salire degli oceani o agli incrementi frazionali della temperatura sopra la media, al ripetersi di cataclismi sempre più dirompenti. Un team di ricercatori inglesi ha affermato che la colonizzazione europea delle Americhe alla fine del XV secolo uccise così tante persone tra malattie e guerre che provocò cambiamenti nel clima della Terra. In pratica la devastazione che accompagnò l’insediamento degli spagnoli non solo determinò lo sterminio di un numero spaventoso di popolazione, più di cinquanta milioni di abitanti, ma portò all’abbandono di un’enorme estensione di terreni agricoli. La conseguente ricrescita di alberi e vegetazione in questi territori abbandonati avrebbe assorbito una quantità tale di anidride carbonica dall’atmosfera sufficiente a far raffreddare il pianeta. Un autore di questo studio, Mark Maslin, ha definito quel periodo (1500/1600) Piccola Era Glaciale, dichiarando in maniera agghiacciante che l’impatto formidabile sul raffreddamento dell’atmosfera, causato dal crollo della CO2, fu a sua volta “generato da genocidio”. Non si trattò quindi di un movimento spontaneo della natura, ma di un evento provocato direttamente dalla mano dell’uomo, tanto che gli studiosi lo considerano come l'inizio dell'Antropocene. Oggi sarebbe insensato continuare a negare la responsabilità dell’uomo come causa primaria nello sconvolgimento del clima.