Di ritorno dagli Stati Uniti leggo che la città di Manhattan sta lentamente sprofondando sotto il suo enorme peso. Lo afferma un recente studio pubblicato su Earth's Future. Il substrato roccioso presente nel sottosuolo, molto aderente alla superficie terrestre, ha permesso all’inizio una massiccia edificazione sostenuta col passare del tempo da ragioni di carattere prettamente economico, oltre alla bramosia di voler competere con opere sempre più audaci e avveniristiche.
Oggi si contano a migliaia i grattacieli che spuntano sopra un fazzoletto di terra ritenuto a ragione il più ambito e il più ricco dell’intero pianeta. Oltretutto alle tonnellate di acciaio e calcestruzzo bisogna aggiungere tutte le altre infrastrutture, metrò, macchine, asfalto, ponti, e naturalmente milioni di abitanti e turisti che sono anch’essi un ingombro notevole. Si percorrono le sue strade iconiche sempre con la testa in su, avendo la sensazione di sentirsi abbagliati, intrappolati dentro una cornucopia vertiginosa, una trottola di luci, rumori, fetori aciduli trascinati da venti scomposti che ad ogni angolo spandono nell’aria l’odore aspro dei burger al cetriolo, cipolla e patatine fritte. La Manhanttan dei grattacieli oggi sembra una grandiosa e seducente giostra impazzita dove uomini e macchine si urtano e si inseguono a vicenda. Non per niente è stata definita il centro del mondo, ovvero The Crossroads of the World, forse perché è l’unico posto dove l’esistenza ha un valore, dove la vita sembra non dover finire mai, dove l’attualità si tramuta in rampa di lancio per ogni disfida, dove la realtà ci vuole poco a farla diventare leggenda. Il poeta Walt Whitman così la descriveva a metà dell’ottocento: “Innumerevoli strade affollate, alte escrescenze di ferro, snelle, forti, leggere, splendidamente sollevate verso cieli limpidi”. Nella costruzione arrembante di questa città ha prevalso l’indistruttibile visione della way of life americana poggiata su uno strato ben più solido del suo sottosuolo, cioè su quell’inesauribile desiderio di primeggiare, di voler sfrecciare sulle punte, di decantare ad ogni anfratto la magnificenza del dollaro. In questa isola insaziabile di vita risuona con persistenza il motto di chi si ferma è perduto, che finisce per diventare terreno fertile di ogni emarginazione e disuguaglianza sociale. Si è costruito in nome del grande sogno, del progresso impenitente, dove tutto deve essere elettrizzante, ciclopico, esclusivo, quand’anche il passo dell’uomo, il suo odore, non si sente quasi più, sopraffatto da un modello di società sempre più artefatto e smodato, vissuto tra solitudine e stordimento. Nel giro di poco più di due secoli è stata distrutta l’isola dalle grandi colline, chiamata “Mannahatta” dagli indiani Lenape che ne custodivano i suoi boschi attraversati da ruscelli e da castori, rischiarati dai raggi del sole ormai inadatti a penetrare la fitta selva di palazzi, sostituiti oggi da pungenti ondate di calore. L’opera verticale dell’uomo inizia a sgretolarsi? Quella che gli scienziati chiamano aree di subsidenza, cioè la misura dell’abbassamento del suolo, coinvolge quasi più di un miliardo di persone che risiedono nelle principali megalopoli del mondo, dove si produce gran parte del reddito globale. La combinazione di densificazione edilizia e innalzamento del livello del mare comporta un aumento del rischio di inondazioni e allagamenti soprattutto nelle città costiere e fluviali molte volte accelerate dall'estrazione di acqua, petrolio e gas dal sottosuolo. A Shangai è stato da tempo sospeso il drenaggio dell’acqua per evitare cedimenti del terreno già appesantito dal suo straripante carico urbano, mentre la Repubblica d’Indonesia nel 2019 è stata costretta ad approvare la costruzione di una sua nuova capitale, abbandonando Giacarta al suo destino a causa del suo sprofondamento. Il terreno argilloso dell’ex lago Texcoco prosciugato più di cinque secoli fa per costruirci sopra Città del Messico ha da tempo iniziato a cedere ad un ritmo di parecchi centimetri ogni anno. Più di vent’anni fa la sua cattedrale metropolitana, un gioiello del 1570, era già visibilmente inclinata dal suo lato destro ed anche se si poteva visitare ancora liberamente le guide turistiche raccomandavano di non entrarci durante la messa. Per chiudere il cerchio, anche Amsterdam, da dove partirono i primi coloni per fondare quella che sarebbe poi diventata New York, non solo è a rischio inondazioni per la salita del mare, ma la siccità degli ultimi anni ha fatto riemergere dall’acqua i pali di legno su cui poggiano le sue fondamenta, rendendoli preda di funghi corrosivi che minacciano la loro tenuta. Nessuna città può considerarsi immune dalle conseguenze dell’impatto ambientale, tanto meno New York. Tuttavia camminandoci sopra, non si avverte l’impressione che l’esposizione al rischio di abbassamento del suolo sia percepito nella sua giusta proporzione. La modernità inquieta, a volte disturba e confonde, ma pretende ogni giorno che si possa tirare l’alba su Times Square.