Ci si aspettava da un governo politico, uscito largamente legittimato dalle urne, un’azione più energica e determinata, che avesse un impatto immediato sui tanti e intricati dossier trovati sul tavolo. Si pensava di vedere all’opera una centuria di acciaio, un monolite, uno squadrone d’assalto compatto e disciplinato ed invece scopriamo un coro di voci sconclusionate,
una nidiata di coriacei battutisti preoccupati di rintuzzare qualsiasi spiraglio innovativo che provenga dal mondo circostante, disponibili solo a contrastare l’insidia di una società aperta ed evoluta. Si propongono schemi concettuali retrivi, slogan ingiuriosi o paradossi lessicali disturbanti sugli studenti che hanno bisogno di umiliazione, sui migranti che fanno male a partire, sulle coppie arcobaleno che spacciano bambini, sui civili trucidati alle Fosse Ardeatine in quanto Italiani mica antifascisti, e così via.
Questa compagine (ça va sans dire): Tira dritto! Quando invece dovrebbe fermarsi un attimo, comprendere ciò che anima le dinamiche sociali piuttosto che voltare lo sguardo all’indietro per timore di essere coinvolti dall’attualità. La destra italiana non riesce proprio a scrollarsi di dosso il morboso attaccamento ad un sistema di valori di un epoca che non c’è più; spesso confonde l’ispirazione, lo spunto storico che serve ad illuminare e dare significato al presente, con l’imitazione, la scopiazzatura bigotta del passato che diviene caricatura, pruderie, riproposizione nostalgica di una memoria gloriosa, ai loro occhi, ma irripetibile. Non potendo proibire per legge la modernità dei nuovi modi di vivere e di pensare, si tenta pervicacemente di resisterle, proteggendo la ridotta traballante di tradizioni e di simbologie sbiadite. Paradossalmente il fascismo per la destra moderna non rappresenta più una forza vitale del passato, ma una regressione del presente, il rifiuto del futuro.
Dopo pochi mesi di gestazione questo governo sembra già vecchio, consunto, povero di humus, improduttivo, ripiegato su se stesso, come un ciclista in affanno su un passo di montagna, appesantito dal dolore dei polpacci, con i piedi che strascicano sui pedali. Eppure avrebbe dalla sua i numeri, un ampio consenso e tutte le leve del comando. Si raccontava del reggente di Luigi XV: “Aveva tutte le doti, tranne quella di saperle usare”. La minaccia del nuovo, dell’ignoto, del discontinuo per la destra sono sempre stati un ostacolo che ha rallentato la sua marcia, un impedimento nel mettersi in gioco, preferendo ancorare le proprie convinzioni e il proprio linguaggio a clausole ideologiche che non hanno più ragione d’essere, imprigionati in un recinto di orgogliosa nostalgia malinconica, una trappola della memoria che scoraggia e blocca la ricerca di nuovi spazi, di nuovi respiri. La malinconia nostalgica è uno stato dello spirito esiziale per una classe dirigente che tende a riproporre sempre la stessa idea, un modo di concepire il mondo che è stato perduto per sempre, che non può più ritornare; una forma di nostalgia che rievoca e idealizza un passato di cui si conserva una percezione magnifica, esemplare, ma la cui assenza è così ingombrante che paralizza e soffoca ogni spinta ideale, qualsiasi desiderio di sperimentare nuove avventure, avere nuovi sogni, essere tentati da criteri estetici meno sterili, senza l’obbligo di ricordare, ad ogni occasione, parole, gesta, immagini e persino posture di un epoca morta e sepolta, non più vitale, rigirandosi in un permanente “lutto patologico” che impedisce di guardare avanti, senza scimmiottare il passato. L’angoscia melanconica, scrive lo psicanalista Recalcati, è come un manto che ricopre per intero l’esistenza sottraendole il futuro e inchiodandolo ad un passato idealizzato. A questa destra di governo accade spesso, proprio perché ancorata ad un ricordo nostalgico, di allontanarsi dalla realtà fattuale, rifiutando di confrontarsi con i suoi richiami, le sue contraddizioni, rigettandola con la parodia di parole d’ordine fuori tempo, con reazioni spesso vanesie e aggressive, con principi di pura retroguardia, spesso inadatti a rappresentare il poliedrico e frenetico dinamismo della società moderna.
Da questo punto di vista non erano e non sono pronti, contrariamente a quello che gridava inorgoglita e spavalda la nostra Giorgia durante la campagna elettorale, lasciata volutamente sola sui palchetti delle piazze d’Italia, mentre dietro le quinte decine di valorosi avanguardisti gonfiavano il petto, sorridevano speranzosi pregustando prebende e posti da occupare. Qualcuno se ne è gloriato così tanto da andare in giro citando, goffamente, il Duce. Ma il potere si nutre e si rinnova con le idee, non si puntella sulle nostalgie, sui rimpianti. Questa classe dirigente non è pronta per competenza e per affidabilità, ma soprattutto per non essersi saputa smarcare, dopo decenni di opposizione, da un passato indecoroso e improponibile, senza riuscire ad immaginare un suo progetto originale di futuro.