Servivano i campionati europei di calcio, con le tappe itineranti da una città all’altra, da Monaco a Roma, da Budapest a Baku, a far avvicinare le persone e ad alimentare, quasi magicamente, il senso di appartenenza alla casa europea. Gli eventi sportivi da sempre incidono sul sentimento delle gente divenendo, come spesso accade, un acceleratore dei cambiamenti sociali.
Basti pensare a quanto sia stata determinante sul comune sentire la mescolanza di calciatori provenienti da diverse etnie sui nostri campi di gioco o l’ultimo gesto, simbolico e provocatorio, di inginocchiarsi per protestare contro il razzismo. Tutti segnali incoraggianti sul piano dell’avanzamento civile e della modernizzazione delle coscienze, comunque più apprezzabili rispetto al distaccato disimpegno dimostrato dalle stesse istituzioni europee proprio su temi caldi come l’integrazione e il coinvolgimento dei cittadini, preferendo puntare il proprio operato su un accentuato economicismo, alquanto insoddisfacente nella formazione di uno spirito identitario. Non c’è più spazio per il sociale, non si investe sulla comunanza di valori e di principi in cui potersi identificare, non si nota una particolare inclinazione nel sollecitare da parte di tutti un’adesione più attiva, visibile, solidale, al di fuori delle fosche liturgie amministrative che regolano, indeterminate ed implacabili, il ritmo vitale della nazione europea. Persino l’auspicata azione rigeneratrice del Recovery Fund risulterà asfittica se l’obiettivo primario della mappatura puntuale dei cantieri non sarà accompagnato da un salto culturale, da una sentita volontà di rinascita popolare. Oltretutto, così facendo si riducono gli spazi di una democrazia rappresentativa insidiata inesorabilmente da un diffuso disincanto e dall’imbarazzo di sentirsi governati da organismi pubblici insensibili e incontrollabili, araldi premurosi di regolamenti e prescrizioni, i cui esponenti sembrano distratti dalla ricerca di incarichi e posizioni di vertice nella sfera governativa, mentre latitano visioni di società e di mondo convincenti e trascinanti, se si escludono studiate ed ovvie dichiarazioni pubbliche sulla tutela dei diritti e dell’ambiente. Si susseguono gesti surrettizi che non servono a riscaldare i cuori oltre a confermare la formula di una democrazia senza popolo. Tuttavia l’idea di Europa non si sarebbe mai affermata senza l’apporto di principi morali e spinte ideali, che puntassero a far progredire la civiltà dell’uomo sopra le barbarie e la disgregazione.
Nel X canto del Paradiso, nel quarto cielo, Dante ci presenta i suoi maestri, gli “ardenti soli”, dentro una magica ghirlanda danzante nell’aria celeste, come dervisci rotanti, quasi ad ispirare l’eleganza e l’ingegno di cui si nutre lo spirito dell’uomo a contatto con la luce divina. In questo canto Dante riepiloga la summa dell’Europa del tempo, i grandi spiriti sapienti che rappresentavano i capisaldi dell’erudizione. Le loro idee circolavano dentro le corti, le abbazie, i conventi e i monasteri sparsi in tutta l’Europa. Questi illustri personaggi, mezzi chierici e mezzi docenti, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino, traducevano le opere allora più rappresentative, le interpretavano, preservando i loro concetti dal pericolo di una dissoluzione socio-politica dell'Occidente. Si analizzava il mondo, mentre si diffondevano i germi fondanti della civiltà europea, la sua sostanza, il suo carattere. Tra questi studiosi va segnalato Beda il Venerabile, monaco inglese, se non altro perché il motto riportato oggi sullo stemma di Papa Francesco, “Miserando atque eligendo”, è tratto da un passo delle sue “Omelie”.
Attraverso Dante capiamo quanta energia ed impegno ci siano voluti per la costruzione di un idea stabile di Europa, dopo lo sgretolamento dell’impero romano e il susseguirsi di feroci stravolgimenti e guerre laceranti. Come sottolinea lo storico Barbero, “le invasioni avevano creato un’Europa diversa”. Carlo Magno, si ricorda, fu colui che riuscì a tenere insieme, proteggendole dai devastanti mutamenti sociali che ne seguirono, le radici latine ereditate dal passato con i precetti del Cristianesimo. Ebbe il merito di avviare un progetto di convivenza tra gente composita, arcigna, conflittuale, mettendo il sapere a frutto comune, nel tentativo di trasformare una terra sempre più vasta in una proficua società di popolo. Nella sua missione non c’era solo l’obiettivo di ricostituire un esercito, di diffondere una moneta unica, ma anche di realizzare un’organizzazione sociale, di indicare una nuova etica, un nuovo linguaggio, una nuova scrittura, più semplice, più comprensibile (la famosa “minuscola carolina” usata ancora oggi) che aiutasse il popolo a districarsi nella comprensione dei testi. Agevolare l’unificazione e la vicinanza dei popoli conquistati, amalgamando costumi e credenze contrastanti, fu la sua unica ragione di comando. Con queste armi, preoccupandosi dell’avvenire della sua gente, riuscì ad investire l’Impero di una nuova luce.