Nel mondo preindustriale, segnato da un’estrema miseria, con carestie e guerre in ogni dove, l’arrivo della peste era considerato un azzardo incalcolabile. Al primo allarme si doveva agire in fretta per evitare il pericolo che l’epidemia potesse tramutarsi in una terrificante carneficina. Le misure di contenimento erano all’incirca le stesse di oggi: guardie armate sui valichi a sorvegliare gli ingressi, cordone sanitario, restrizioni degli spostamenti.
Tuttavia, nonostante non si riesca a capacitarsene, anche le negligenze e le inadeguatezze si sono ripetute identiche nel tempo, basti pensare alla persistente insufficienza in cui viene a trovarsi la sanità pubblica, mai veramente pronta a contrastare l’infezione, o all’insofferenza quasi fobica verso divieti e controlli, così come per le norme di prevenzione. Insomma, di fronte a questo accidente infido e invisibile, l’intelligenza umana sembra ripiegare, mentre prevalgono egoismo e diffidenza: ognuno pensa per sé. Si combatte il flagello come se ogni volta si trattasse di uno shock sconosciuto, mai sperimentato, cioè con la massima solerzia e la massima impreparazione. Ne sono la riprova i fatti avvenuti nella cittadina di Prato nel 1629, documentati da Carlo M. Cipolla nel libricino “Cristofano e la peste”. Alla prima comparsa della peste il primo provvedimento fu quello di collocare il lazzaretto in pieno centro, in mezzo ad un via vai di gente e di merci che entravano ed uscivano senza alcun controllo. Ciò ampliava il contagio. Si capì dopo che era essenziale spostarlo fuori le mura e trovare una sistemazione adeguata per i convalescenti. Ma non fu una cosa semplice per le tante resistenze e beghe che ne intralciavano la soluzione. Per dirimere la questione fu chiesto l’intervento dell’autorità sanitaria di Firenze. Ora, il potestà di Prato proponeva di spostare il lazzaretto nel convento di Sant’Anna a circa mezzo miglio dalla città, ma per il cerusico mandato da Firenze le stanze del primo piano erano troppo umide. Si ripiegò quindi su un altro convento, in zona Il Palco, ancora più distante, e che, incidentalmente, era di proprietà di un altro ordine religioso, gli Zoccolanti. Riguardo ai convalescenti, in quarantena, si optò per una villa della famiglia fiorentina dei Gori. La faccenda, però, prese una brutta piega. I frati dell’uno e dell’altro convento cercarono di scongiurare l’onere di accogliere il lazzaretto tra le proprie mura accusando di intrallazzo con il potere costituito i frati avversari e, quel che è peggio, non si era fatto i conti con l’influente famiglia fiorentina dei Gori che si mosse rapidamente per far valere le proprie ragioni. E difatti qualche giorno dopo la Sanità di Firenze sentenziò che c’erano ville pratesi adatte ad essere trasformate in convalescenziario e che quindi non pensassero a molestare le proprietà dei fiorentini che non dovevano essere gravati per una causa di cui si beneficia solo Prato. A questo punto le autorità pratesi furono persuasi a spostare il lazzaretto a Sant’Anna e i convalescenti al Palco. La decisione fu approvata e ratificata con unanime soddisfazione. Stanchi, dopo due mesi di trattative e rinvii, si tirò un bel sospiro di sollievo. Nella frenesia del momento però nessuno aveva fatto caso che il convento di Sant’Anna e Il Palco erano troppo distanti per funzionare in sincrono. Spostare i convalescenti dal lazzaretto in pieno inverno diventava molto rischioso. Perciò il luogo della convalescenza doveva essere, di nuovo, ripensato. Accanto al convento di Sant’Anna c’era la villa appartenente a Lattanzio Vai, ottima persona, famoso canonico e membro di una famiglia eccellente e facoltosa di Prato che certamente avrebbe dato il suo consenso. Senza indugi, preoccupati dal numero in crescita dei morti, si affrettarono i preparativi, si fecero uscire i frati dal convento, si avviarono opere di muratura, si iniziarono a portare letti e materassi, vasellame e padelle. Così il 31 dicembre il podestà di Prato assicurava finalmente l’Ufficio di Sanità di Firenze che il lazzaretto poteva essere aperto ai malati. Il pomeriggio dello stesso giorno Don Lattanzio scrive a Firenze lamentandosi di aver subito uno sfratto indecoroso. Segnalava, sdegnato, la presenza in loco di altri edifici disponibili, mentre egli non aveva altro luogo dove sistemarsi. L’illustre prelato palesemente mentiva, in quanto non viveva nella villa vicino al Convento di Sant’Anna, ma dentro le mura della città e, per quanto servisse, possedeva altre due case nel borgo e tre ville nel contado circostante. Ma non ci fu verso. I suoi amici potenti non tardarono ad intervenire. La mattina del 1 gennaio la Sanità di Firenze ammoniva gli ufficiali di Prato a non infastidire il povero don Lattanzio che, giustamente, aveva manifestato l’intenzione di non “scasare”. Pur allo stremo, bisognava cercare un’altra soluzione. E fu un vero miracolo che i frati di Sant’Anna non avessero abbattuto un cascinale diroccato adiacente il convento che poteva essere rassettato alla meno peggio per accudire i convalescenti. Nessuno reclamò per quel rudere in rovina, mentre Don Lattanzio si fece scrupolo di fare una lauta donazione ai frati. Il 13 gennaio si portarono i degenti nel nuovo lazzaretto. Sembra oggi.