L’allenatore Cesare Prandelli, dimettendosi dalla Fiorentina, consegna al mondo del calcio, al suo mondo, un irrisolto malessere, attraverso una lettera accorata in cui annuncia la sua autoesclusione, dichiarandosi umanamente prostrato. Consapevole della sua definitiva retrocessione, ora desidera tracciare più proficui bordi di resistenza lontano da un rettangolo di gioco, asfissainte e turbolento,
che sente non appassionarlo più e da cui non si sente più riconosciuto: “Questo mondo non fa più per me”. Una lettera che merita un plauso per la dignità ed il pudore che tutti dovremmo avere nel confessare le nostre debolezze, e che pur non rimarginando ancora le cicatrici, almeno accarezzano il dolce sogno dell’oblio purificatore, reclamano una tregua balsamica per un’anima affamata di riconoscenza, perseguitata da un sentimento di impotenza. Tuttavia per una completa guarigione manca ancora il confronto, temerario e chiarificatore, con sé stesso e con le proprie aspettative deluse, manca l’ammissione degli errori commessi, manca il riflesso di una intrinseca fragilità di uomo sin troppo costumato e sensibile per ricoprire un ruolo di leadership per lui rivelatosi talvolta ingombrante. Nel silenzio insidioso del proprio smarrimento saprà certo ritrovare un profilo di vita più coerente alle sue idealità, una dimensione umana più consona alle sue inclinazioni, come da lui stesso auspicato: “credo sia arrivato il momento di fermarmi per ritrovare chi veramente sono”. Quando Celestino V fu costretto a dimettersi non accusò il mondo di nessuna nefandezza, sapeva in cuor suo che fare il Papa, per uno che era nato per fare il monaco eremita, non era mestiere ragguardevole. Cesare Prandelli non essendo dotato dell’arguzia di Allegri o della sfacciataggine di Mourinho, nel corso della sua carriera è rimasto genuinamente fedele a valori che sembrano cozzare con un mondo tanto spietato e pretenzioso, finendo per perdere la sua partita di mediano nato per addomesticare l’avversario, senza averne la pretesa di domarlo.
Viene fuori il gregario di lusso, portatore d’acqua del gioco e della fame altrui, sin dai tempi della Juventus dove il malandrino Trap lo inseriva ad un quarto d'ora dalla fine della partita per far rifiatare la squadra e proteggere lo striminzito vantaggio sull'avversario di turno. Per inciso: adesso uno come lui servirebbe come il pane!
Le dimissioni sono sempre state una sonorità distintiva del suo operato da allenatore oltre che un alert disperato lanciato dal suo spirito inquieto. Dimissioni irrevocabili e giustificate, presentate un momento prima della catastrofe, che Cesare ha brandito come arma salvifica per circoscrivere e ammansire l’imbarazzo della resa, l’ombra della disfatta, il timore di essersi caricato un compito troppo lacerante e competitivo per il suo modello di galanteria esistenziale.
Come commissario tecnico della nazionale italiana Prandelli si impegnò nel diffondere una filosofia calcistica impregnata di impegno e sudore, ma anche di vita privata morigerata e responsabile. Per essere convocati non bastava saper giocare a calcio e avere una buona tecnica, ma bisognava anche avere dei comportamenti irreprensibili nei confronti degli avversari e rispondere ad un "codice etico" in base al quale i calciatori che si rendevano protagonisti di azioni antisportive erano esclusi dal giro della Nazionale. Un codice etico che però inizia a traballare già da subito dopo le prime amichevoli prima del Mondiale 2014, per essere poi definitivamente abbandonato con una clamorosa retromarcia, portandolo ad inserire nel gruppo calciatori in precedenza esclusi, come Balotelli e Cassano, dotati purtroppoi di una naturale predisposizione agli eccessi di ogni genere. Un black-out disastroso di immagine e di risultati da cui Cesare si sottrarrà con le consuete dimissioni e fuga milionaria verso Istanbul.
Non ammettere le proprie insufficienze e prendersela con il mondo che cambia irrimediabilmente, senza preavviso, può nuocere non solo alla carriera ma alla propria autostima. Si diventa matti a rincorrere il giusto tributo che tarda ad arrivare, si resta da soli, sfiduciati ad indignarsi, immersi in un’amarezza devastante. Le sconfitte anche se ci accompagnano per tutta la vita, non sono mai definitive, anzi spesso sono illuminanti, forse più di certe vittorie che, a volte, sono frutto di combinazioni fortuite ed occasionali, ma che emotivamente tendiamo ad ingigantire nella nostra mente facendosi sembrare ciò che non siamo, riconoscendoci dei meriti che probabilmente non meritiamo. Adesso per l’uomo Prandelli incomincia l’ora più buia. Stavolta a poco servirà buttare la palla in tribuna o rifugiarsi in qualche posto fuori mano, che sia uno sperduto ritiro esotico o la mesta e mansueta Albania. Inizia, per lui, una battaglia interiore per avere ragione dei suoi demoni, la costruzione di una nuova visione di gioco.