Forse ne usciremo un po’ ammaccati dalla lotta contro il coronavirus, ma è altrettanto sicuro che, qualunque sia il dopo, dovremo cogliere l’occasione che ci viene data, una volta superata l’emergenza, di rivalutare e ripensare una prospettiva di vita meno frenetica, più centrata sul benessere mentale di ognuno di noi.
A cominciare dall’utilizzo della tecnologia digitale, in questi giorni certamente necessaria e imprescindibile per allentare la morsa dell’isolamento in casa, dallo smart working agli interminabili collegamenti su skype, che dovrà tuttavia essere riconsiderato per evitare di diventare soggetti passivi di un macroscopico progetto di sfruttamento delle nostre vite. Il problema è stato approfondito dalla sociologa Shoshana Zuboff nel volume “Il capitalismo della sorveglianza”, in cui spiega come internet si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui nostri comportamenti futuri, un microscopio che permette di esaminare l’interazione sociale ad un livello di dettaglio senza precedenti.
Il laboratorio più inquietante in cui si perpetua questo controllo psicologico di massa è rappresentato da Google che è in grado di rielaborare, decodificandolo, tutto ciò che noi inseriamo nelle sue pagine. Il suo accesso riservato ai dati comportamentali di ciascun utente ha permesso a Google di conoscere attraverso “una accumulazione di surplus comportamentale” più cose di noi di quanto noi stessi possiamo sapere. Tutto ciò che inseriamo nel web spontaneamente, nel corso della nostra vita sociale quotidiana, in forma di query, post, like, foto, mail etc. non è altro che la nostra esperienza, pensieri, desideri, emozioni, che diventano un immenso serbatoio di tracce intime, analizzate e quindi trasformate in prodotti predittivi, venduti agli inserzionisti pubblicitari con lauti guadagni, che pedinano i nostri specifici orientamenti, le nostre preferenze, persino le nostre manie. Una moderna cartomanzia basata sulla previsione e vendita del futuro, come dice la Zuboff : “un campo antico e remunerativo, che si è sempre nutrito dello spaesamento dell’umanità al cospetto dell’incertezza”.
Non ci sarebbe neanche più bisogno di scrivere post e connettersi sul web in quanto la grande macchina sa già dove siamo e cosa pensiamo in ogni istante, proprio perché in un volontario atto di sottomissione abbiamo delegato ad altri, in modo (in)consapevole, la conoscenza di noi stessi, dei nostri sentimenti, dei nostri gusti, delle nostre abitudini. Come “Nella colonia penale” di Kafka, l’uomo subisce fatalmente il sopravvento della macchina, mettendosi al suo servizio. Siamo obbligati a ricevere in modo subdolo e accattivante consigli e proposte di acquisto cucite su misura per noi, avvalendosi di un concentrato di potere assoluto che nessuno ormai osa contrastare, in grado di blandire la nostra buona fede, anzi facendo credere di farci anche un favore. Abbiamo quindi perso, come è stato ricordato, il diritto di essere dimenticati.
Insomma, per Google, ma questo vale per Facebook ed altri marchi, siamo l’esca munifica attaccata all’amo del profitto dei capitalisti della sorveglianza. Non più soggetti della connessione, ma vittime sacrificali e oggetti di dominio. Scomparse le premesse dell’utopia originaria orientata a favorire la democratizzazione della conoscenza, il mondo digitale si è modificato in un mezzo oscuro e famelico, che ci intontisce, e a cui non sappiamo porre alcuna resistenza.
La gratuità del servizio, l’impossibilità di leggere le norme sulla privacy, la paura di essere oscurati ed esclusi: tutto ciò ha contribuito a giustificare il diritto di Google ad invadere e saccheggiare la sfera privata di chiunque a scopi utilitaristici. Questa nuova e insidiosa branca del modello neo liberista, nota come economia comportamentale, sfrutta a fine di lucro i nostri pensieri, macinando un’accumulazione di profitti senza eguali, da una parte sorvola sui diritti e le libertà individuali e dall’altra amplifica le disuguaglianze e diminuisce i livelli di democrazia. Lo studioso William Davies ne ha sottolineato l’ingordigia e la spregiudicatezza: “non si vuole più un mercato imparziale, dove ognuno ha la stessa possibilità di farcela, ma uno spazio in cui i vincitori conquistano una gloria sempre maggiore e ne fanno bottino”. Quando il coronavirus sarà domato si dovrà affrontare con maggiore incisività il morbo insidioso del capitalismo della sorveglianza che sollecitando, sulla rete, un effetto edonistico, ci rende sempre più cinici ed egoisti, con i rari momenti di felicità offuscati da un preoccupante incremento di effetti corrosivi come la depressione e la solitudine. La possibilità di invertire questa drammatica tendenza è riposta nella speranza di dare in futuro un senso più umano al mondo digitale.