Certo ci chiediamo: sarà mai possibile uscire dalla schiavitù del web? La disinvoltura con cui il mondo digitale, leggero e saettante, con i suoi tool tecnologici, sta soppiantando il mondo tradizionale, pesante e legnoso, è ineludibile?
I nostri antenati forse provarono lo stesso sbigottimento vedendosi circondati dai primi enigmatici graffiti, eppure l’invenzione della scrittura si rilevò uno strumento tanto attrattivo da accrescere l’intero modo di pensare e di agire. Le aste e le figure rudimentali incise sulla roccia scaturivano da una esigenza di tipo commerciale, gli scambi iniziavano ad incrementarsi, bisognava prendere nota delle transazioni, contare i pezzi, numerarli, così pure il termine “digitale” deriva dal latino “digitus”, cioè indicare, cifrare; oltretutto l’uso della scrittura agevolò quell’irreversibile processo di accumulazione del sapere non più basato sulla memoria e sulla parola, ma sul testo scritto e la qual cosa provocò parecchie resistenze da parte di illustri pensatori, compreso il sommo Platone, che tentarono di contrastarne la diffusione. Il cambiamento in atto è rapido e onnipresente. Non si può arrestare e non prevede alcuna via di fuga: in un attimo ci siamo persi il telefono a gettoni e la puntina del giradischi poggiata sul vinile, siamo arrivati allo smartphone pieghevole ed è possibile acquistare, on line naturalmente, il trolley munito di cassetti interni per poter stoccare i vestiti senza sgualcirli e senza bisogno di svuotare la valigia. Snobbiamo, orgogliosi e sdegnati, i device digitali ma finiamo per utilizzarli con una esaltazione a volte esagerata. Una serie infinita di novità tecnologiche si autoalimentano senza porsi limiti e confini, si sovrappongono alla realtà, la duplicano, tanto da definirla “realtà aumentata”, sollecitando una concezione del vivere che allarga a dismisura le potenzialità e le prospettive della nostra dimensione mentale, spingendoci in una sorta di perpetuo “esattamento” come lo definisce Raffale Simone nel suo libro “Presi nella rete: la mente ai tempi del web”, cioè il perenne insorgere di impulsi e bisogni creati dal nulla, stimolati dagli onnipresenti strumenti tecnologici. Simone si chiede in che modo “la mediasfera” sta cambiando la nostra mente, sta rivoluzionando le nostre abitudini, e se le nuove tecnologie sono adeguate ad accrescere la nostra intelligenza ed il modo di ragionare incentrato da millenni sulla profondità del pensiero e sulla fatica dell’esperienza. Ci troviamo dentro una traiettoria orientata sul futuro, sballottolati da un inarrestabile flusso collettivo che resetta ed aggiorna continuamente i nostri modelli di riferimento, la cui fruibilità porta dritto all’essenza delle cose; attraverso la navigazione si modellano pensieri, volteggiando da un link ad un altro, come l’ape di fiore in fiore, perché la natura dinamica del digitale contiene un progetto di esplorazione, un continuo andirivieni che dalla profondità risale alla superficie, in cui il gesto si trasforma in movimento. Chi ha letto “The Game” sa di cosa parlo. La rivoluzione digitale, dice Baricco, incorpora “una nuova way of life, un certo modo di stare al mondo. Una differente idea di ordine, e presa sul reale. Una nuova civiltà”. La versione di Baricco è che la rivoluzione digitale non sia la causa ma l’effetto della spontanea e travolgente rivoluzione mentale iniziata alla fine degli anni sessanta a partire dalla ribellione di un gruppo di ragazzi californiani che progettarono una visione della vita in grado di rigettare la logica perversa della guerra e del dispotismo, che superasse le atrocità del Novecento. Tempo addietro il filosofo Michel Serres aveva già introdotto l’era del digitale presentandola come una rivoluzione resa inevitabile proprio dalle nefandezze della prima metà del XX secolo e dei millenni precedenti, in cui il predominio incontrastato delle forze violente e feroci, hanno provocato “massacri da cui il dolce è fuggito insieme alla vita”. Era necessario arrivare all’età dolce, quella pacifica, digitale, quella della mente. Lo stesso Umberto Eco, dopo aver polemizzato con quella legione di imbecilli che si impossessano del web credendosi tutti dei premi Nobel, asseriva che la rete poteva diventare una risorsa utile se usata con maggiore discernimento, ammettendo che se ci fosse stata ai tempi del nazismo difficilmente si sarebbero potuti nascondere gli orrori di Auschwitz. Ritorna ancora il ripudio dell’incubo del Novecento, dei suoi puntelli, delle sue casematte da abbattere attraverso la sorveglianza del web. La nostra esistenza sarà sempre più connessa alla rete. Con il suo veloce e maneggevole mescolamento, seguiremo il suo schema di gioco e forse riusciremo a capirne meglio i suoi limiti quando smetteremo i panni della sufficienza e dell’ipocrisia per riappropriandoci delle sue stesse virtù terapeutiche, senza metterci di traverso. A partire dal mondo dell’istruzione sarebbe auspicabile interpretare un secondo tempo di partita con regole di ingaggio più flessibili e intrepide, prevedendo tattiche di più lungo respiro, ricomponendo gli eccessi, filtrando il sapere, incoraggiando la capacità critica dei partecipanti, ricollocando all’interno della “mediasfera” tracce di civilizzazione umana.