Quando la terribile pestilenza del 1630 ebbe finito di sconvolgere l’esistenza di interi villaggi e città del Ducato di Milano, l’aria divenuta amara e irrespirabile per l’odore acre di macerie e cadaveri d’ogni risma, nobili e poveracci, onesti e bricconi, umili e prepotenti, in mezzo al grondare rabbioso e purificatore della pioggia, il Manzoni
fa apparire sulla scena dei Promessi Sposi il volto affranto e lamentoso di Don Abbondio che con mansueta e distaccata cautela, azzeccandone finalmente una, esclama: “ E’ stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più”.
La peste fu davvero una micidiale ramazzata che paradossalmente, come e più di una rivoluzione, procurò l’inaspettato sollievo di mondare, almeno temporaneamente, la società da soprusi e ingiustizie, prepotenze e privilegi. Lo storico Luciano Canfora accoglie questo riferimento letterario nel titolo del suo libro “La scopa di Don Abbondio – Il moto violento della storia” per ripercorrere il corso degli eventi umani come un continuo scompaginarsi a seguito di sconquassi imprevedibili, simili a movimenti tellurici improvvisi, il cui passaggio spazza e travolge, senza alcuna misericordia, le sistematiche incrostazioni di un sistema ingombrante e insopportabile, ridisegnando equilibri, dipanando a suo piacimento dispute e ambiguità, azzerando poteri, alimentando illusioni, segnando infine rigogliose prospettive.
E’ risaputo come la restaurazione del vecchio ordine incomba su tutte le rivoluzioni. Canfora descrive l’insieme del fenomeno come un moto a spirale, sinuoso, non lineare, un alternarsi vorticoso di avvenimenti che si succedono con traiettorie a volte inaspettate, senza reali inizi e senza definitive rotture con il passato, movimenti che vanno avanti e poi retrocedono per ripresentarsi inesorabili attraverso forme nuove di conflittualità. Nessuna restaurazione però azzera completamente la base di valori e ideali del mondo precedente, ciò che non viene perduto si deposita nella coscienza collettiva della società che Canfora, citando Tocqueville, chiama “le viscere di una nazione”, cioè la sua sostanza primordiale e più profonda che immagazzina ed aggiorna l’essenza del cambiamento senza far retrocedere la storia completamente al punto di partenza: “tutte modificazioni che, una volta acquisite, difficilmente si perdono. E’ il residuo profondo, la sedimentazione storica delle rivoluzioni, il loro lascito”.
Diventa impossibile arrestare il moto violento della storia almeno fino a quando riaffiora l’insopprimibile aspirazione dell’uomo verso una maggiore uguaglianza, quella speranza mai doma di un mondo più giusto ed egalitario che, nel torpore generale, si riaccende inevitabile e necessaria come un fuoco imperioso: gli uomini non smetteranno mai di cercare l’uguaglianza, una maggiore equità sociale.
Ognuno a suo modo, però, e con schemi differenti. Mentre in Francia i gilet gialli manifestano la propria rabbia trasformando la legittima protesta per l’aumento del costo del carburante in permanente rivendicazione di scelte economiche meno vessatorie ed in un furioso antagonismo politico il cui sviluppo globale è ancora tutto da appurare (Metternich d’altra parte ammoniva: quando Parigi starnutisce l’Europa si prende un raffreddore), in casa nostra, invece, il malcontento viene derubricato a mugugno e sfogo dilatatorio; nell’asperità del momento si rispolverano piuttosto i vecchi trucchi del sopravvivere, affidando alla molestia di certi personaggi il compito inverecondo di cavalcare il rancore ricevendo come gratifica il collaudato sistema familistico-corruttivo, oppure restando ancorati nella ricerca ossessiva di un salvatore della patria, di un capo dalle buone maniere, passabilmente rozzo e ardito, da cui si reclamano urgenti provvedimenti di sottomissione e di conforto, tipiche ricette del rassicurante populismo, cioè quello della delega in bianco contro un nemico virtuale, straordinariamente malvagio e usurpatore, (oggi l’Europa e i migranti, ieri le democrazie giudo-plutocratiche) accompagnato da un glorioso reddito universale, marchingegno adulterato del “panem et circenses”, utile ad ammorbidire le coscienze regalando un momento di sana spensieratezza, alterando la scorza del lavoro in servilismo e accattonaggio.
Tutto ciò fa parte del nostro dna, delle nostre viscere anche se in questo scenario si spostano indietro le lancette di quella storia che da noi fa fatica ad avanzare, anzi procede a passo di gambero per dirla con Eco. Il dramma si trasforma spesso in farsa. Don Abbondio resta il nostro punto di riferimento, il nostro specchio: pavido e provinciale, furbastro e accondiscendente con i potenti, rimanendo in eterno vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, attento solo a non frantumarsi. Una macchietta del melodramma italico senza nerbo e senza visione, irrequieto e scanzonato, che affronta le difficoltà con lo stesso rigore di una gita fuori porta o, verrebbe da dire “alla viva il parroco”. Sinora nel nostro Paese il moto violento della storia, se c’è stato, non ha provocato scossoni, ma solo pericolosi smottamenti.