La carenza di civismo è senz’altro una delle cause che caratterizzano l’astensionismo. Tuttavia dobbiamo anche chiederci se questa diserzione di massa dalle urne non sia frutto della difficoltà degli elettori di incrociare una buona offerta politica. Insomma, per chi si chiede di andare a votare? Dopo ogni disfatta elettorale c’è chi esprime un malcelato disprezzo verso quei cittadini colpevoli di non aver ben compreso le sostanziali novità del loro programma, ma non nutrono eccessivi dubbi sull’adeguatezza della propria candidatura.
Tutti, ovviamente, credono di avanzare una degnissima proposta elettorale, tuttavia la crescita della sfiducia e della disaffezione nega questa evidenza. Un tempo si provava persino un certo pudore nel candidarsi, lo si faceva per convinzione, e quasi mai, diversamente da oggi, per sfrenato arrivismo o per sistemarsi una buona volta. Non era necessario essere competenti e istruiti, ma certamente dotati di una spiccata sensibilità e di un alto senso morale. Questi fondamentali sono letteralmente spariti.
Come mai siamo scivolati verso questa umiliante mediocrità? La logica autodistruttiva che ci porta ad accettare personaggi tanto modesti e tanto opachi, si spiega forse con il fatto che detestiamo quelli più bravi e più preparati di noi. Preferiamo puntare sugli inetti e sui compiacenti, possibilmente irrilevanti. E’ vero che oggi al vertice c’è un uomo di spessore, ma non l’abbiamo scelto noi, ci è stato imposto. I mediocri per natura sono pacifici, rituali, sanno stare al mondo, danno affidamento. Il cambiamento non li si addice, preservano, attraverso la loro ignavia, il nostro tornaconto personale, nascondono le nostre debolezze, dissimulano il nostro consumato servilismo. Più che delegati cerchiamo di farci rappresentare da complici benevoli. Purché assolvano con puntigliosa diligenza al loro compitino riuscendo a tenere saldamente bloccato il sistema. Mai una scelta coraggiosa, mai una svolta epocale. Di certo il mondo non lo trasformerebbero mai, ed è anche in forza di questa loro inettitudine che sarà sempre peggiore, indifeso, degradato. Nella decisione di scegliere un candidato scadente, remissivo, e facilmente ricattabile, c’è la lucida consapevolezza di poterlo poi blandire e indirizzare. Se gli abbiamo concesso l’occasione di farci governare, questo privilegio deve saperselo sempre meritare facendo tutto ciò che noi desideriamo e non tutto ciò che è giusto per il bene collettivo.
Per questo il rappresentante del popolo preferisce restare immobile, come un opossum, in circospetta attesa. Le sue idee, le sue azioni non sono proiettate verso il futuro ma tendono a far fruttare il più possibile il presente. Le scelte dirompenti, decisive, “di peso” non sono affare suo, a meno che non servano a corroborare la sua cerchia, la regola più convincente della “mediocrazia” è sempre quella di differire, rinviare, insabbiare. La ripresa della corsa a nascondersi al centro spiega l’ulteriore involuzione del ceto politico. Il centrismo, per quanto lo si voglia edulcorare, resta comunque uno spazio politico dove non è necessario fare scelte, se non quella di potere. Un potere sempre più consunto e rovinoso.
In questo scorcio di modernità, incerta e declinante, si è più propensi alla difesa del proprio status quo, piuttosto che puntare su una incerta radicalizzazione del sistema. Siamo pur sempre una maggioranza di benestanti con una piccola frangia di povertà. Chi si dovrebbe ribellare? Siamo come annullati in una sorta di passività collettiva. Non siamo più individui coscienti, ma una folla impantanata in una sordida palude. “Nell’anima collettiva, scriveva Gustave Le Bon, le attitudini intellettive degli uomini vengono annullate”. Disertare le urne non è affatto un segnale di ribellione, come si afferma da più parti, ma un palpabile, coerente, estremo atto di acquiescenza che si autoalimenta tra la nostra rinuncia a voler rischiare la modifica dell’esistente ed il conseguente, deplorevole scadimento della classe politica. Non è il caso di andare a votare perché ci pensa il sistema, per default, a toglierci dall’imbarazzo. La mediocrità si è fatta così persistente che la traiettoria politica di certi personaggi si è ridotta a periodi sempre più brevi, pochi attimi sono sufficienti per passare dalle acclamazioni e gli osanna iniziali alla miserrima rivelazione della propria vaghezza. Non riescono neppure a comprendere quando finisce il feeling con il loro popolo, come lo chiamano, con una punta di sospetta demagogia. Anche quando sono avviati verso un irreversibile oblio sperano sempre nel flebile supporto di un sondaggio o nell’efficacia del loro virtuosismo dialettico, per puntellare la propria compagnia di giro, pensando che dietro si muova un esercito di ardimentosi invece che un manipolo di plaudenti, spesso malfidati e opportunisti, disposti a tutto, e quindi anche all’occorrenza, ad abbandonarli su due piedi. Sono come quei pugili un po’ suonati stabilmente sul ring che non sentono il suono della campanella e continuano a saltellare un po’ sorpresi dalla loro stessa ostinata impudenza, ma confortati dalla nostra disarmante, arrendevole benevolenza.