Ha suscitato sconcerto la vicenda del giovane italiano trovato morto suicida nel college degli Stati Uniti dove studiava, proprio alla vigilia del suo diciottesimo compleanno. Si apprende che il ragazzo si è tolto la vita in seguito alla decisione della presidenza di metterlo in isolamento per tre giorni, colpevole di aver copiato un compito scritto.
Per placare l’onta insostenibile della punizione subita, tanto deplorevole quanto fuori tempo, definita appunto “inimmaginabile e primitiva”, ha scelto di buttarsi tra le braccia consolatrici della morte, non sapendo governare la vergogna ed il terrore che lo assaliva, spegnendo definitivamente la luce della sua stanza. C’è stato un tempo, nel periodo lieto e festoso dell’infanzia, in cui il cielo sconfinato faceva capolino dentro le stanze degli adolescenti. Perforava le pareti, le inondava di luce e di colori, le trasformava in luoghi idilliaci e travolgenti. Nel segreto di una piccola stanza, con l’audace spavalderia propria dei bambini, si acchiappavano desideri, si realizzavano sogni, si inventavano magie ad occhi aperti. Si teneva in scacco la vita, rintracciandone i segnali più oscuri e affascinanti. Si cresceva in fretta, manifestando il bisogno di partecipare al mondo.
Purtroppo, in così poco tempo, tutto questo si è perduto, consumato. Oggi i fanciulli sono intrappolati in stanze senza cielo. Le pareti circoscrivono la loro fragilità ed un presente insonoro e opprimente. A volte queste stanze si trasformano in un bivacco di incubi, in una prigione oscura, in un rifugio esangue. I ragazzi si rinserrano dentro sconfortati dall’idea che fuori non c’è niente di interessante e che il futuro ha il ghigno di un contrafforte inespugnabile, proibito ad ogni assalto. Rannicchiati su se stessi divorano la propria vita soffocandola. Interrompendo qualsiasi forma di socialità passano il loro tempo davanti allo schermo del computer per paura di doversi confrontare e soccombere, sopraffatti da una realtà che sentono stancante, nauseante. Tutte le forme conosciute di “esclusione volontaria”, ad iniziare dagli “hikikomori” (dal giapponese "stare in disparte"), raccontano di un grave malessere sociale in continua espansione non solo nei paesi asiatici, ma in tutto il mondo, Italia compresa. Usciti dal mondo dorato dell’infanzia gli adolescenti non sono preparati ad affrontare il destino avverso, l’ignoto, hanno difficoltà a gestire l’ansia e non riescono ad adattarsi al nuovo. Rinunciano a qualsiasi attività pur di non stressarsi in faticosi confronti con la realtà effettuale, preferiscono interrompere qualsiasi relazione sociale isolandosi tra le quattro mura di casa per paura di andare incontro al giudizio degli altri e di essere etichettati come incapaci o disadattati. I rapporti sociali vengono sostituiti da quelli mediati tramite internet. Chiusi a chiave nelle loro stanze, non si fidano o non riconoscono più ciò che Luigi Zoja ha definito “la mano protettrice e guaritrice del prossimo”, mentre l’unico conforto rimane il cellulare con cui i ragazzi simulano l’inclusione per evitare di doversela vedere faccia-a-faccia con l’Altro, chiudendosi nel più totale e orgoglioso isolamento, afflitti da uno acerbo e sconcertante nichilismo.
La causa preponderante di questo loro ammutinamento è stata osservata nelle società fortemente competitive dove il bisogno di realizzazione individuale è spinto all’estremo, con aspettative e obblighi morali troppo impegnativi per questi ragazzi. Ed è proprio questa pressione sociale che li turba, che accentua l’insofferenza e la rabbia sino a spingerli, per reazione, ad assumere ritmi di vita contrari ed opposti alle normali dinamiche sociali, giudicate da molti impresentabili e ormai prive di senso.
Si dice che oggi si cresce più adagio. L’infanzia si prolunga perché gli adolescenti sono trattati come bambini poco indipendenti e più protetti da genitori, e questa lentezza nella crescita ritarda l’assunzione di comportamenti più consapevoli, anche per non rinunciare ad un luogo meraviglioso in cui si ricevono solo apprezzamenti e lodi sperticate. L’attenzione verso i propri figli era meno ossessiva nelle famiglie numerose piuttosto che nei confronti dei figli unici a cui è stato consentito crescere senza fretta e con una comodità senza precedenti. Non si ricordano epoche storiche in cui le madri hanno accompagnato i figli a lezioni di piano o in piscina quando intere generazioni macinavano chilometri a piedi per frequentare la scuola o venivano lasciate a giocare per strada abituandosi così al rischio e alla progressiva maturazione attraverso l’esperienza diretta, sbattendoci il muso da soli.
Inoltre a questi ragazzi abbiamo insegnato che la sofferenza è stata sonoramente sconfitta dalla modernità. Abbiamo costruito intorno alle nuove generazioni quella che il filosofo B. Han chiama “la società senza dolore”. Il dolore viene interpretato come un segnale di debolezza, una fragilità da nascondere perché incompatibile con la società competitiva in cui sono richieste performance sempre più elevate, esacerbanti. Nascondendo l’esistenza del dolore e della morte li abbiamo sottratto anche la felicità. Dolore e felicità invece sono il lievito della crescita, come si apprende leggendo i libri di fiabe su cui non abbiamo trattenuto abbastanza i nostri bambini. Crescendo i ragazzi di oggi si ribellano al mantra illusorio della perpetua felicità, pensando di essere stati ingannati.