Non sarebbe poi tanto bizzarro far partecipare il ceto politico al completo, quello alto ma anche quello basso, ad un corso di meditazione Zen. Sarebbe senz’altro indicato per irrobustire il loro “Io” decadente, impaurito, per fare esperienza di sé e per guardarsi dentro attraverso le leggi temperate del Karma.
Questo mondo, tanto presenzialista quanto evanescente, potrebbe scoprire le meraviglie dell’impermanenza, la seduzione della purezza mentale, sorprendersi nelle profondità del proprio animo e, soprattutto, imparerebbe ad accettare l’implacabile ritmo del tempo, mai replicabile e mai così fugace. Come si vede, il passo dei partiti rimane sempre più incerto, traballante, la loro azione sconnessa, talvolta inesplicabile; dalle loro stanze si espandono vibrazioni stridule, vacue, senza sinfonia. Niente sembra reale in un dibattito politico che quando si accende sembra subito evaporare, decomporsi, smarrirsi nel provvisorio, nell’espediente, nel rabberciato, trasformarsi in una surreale e malinconica messinscena che incute smarrimento, che disorienta. L’immagine negativa che la gente ha del ceto politico, viene fuori dall’anima profonda del Paese, da ogni incrocio di sguardi sempre più increduli, attoniti, perplessi. Un sondaggio di questi giorni sulla elezione del Presidente della Repubblica testimonia come al di là di ogni differenza di schieramento e appartenenza partitica il 76% degli intervistati dichiarano di avere poca fiducia nei confronti di questo Parlamento chiamato ad eleggere, insieme ai delegati regionali, il prossimo inquilino del Quirinale. In definitiva gli intervistati si sono chiesti come farebbe questo ceto politico “indegno” ad eleggere una figura “degna” alla presidenza della Repubblica.
Si è perso tutto: la dignità e la tradizione, l’etica e la responsabilità. Si consolida il sospetto di una classe politica scomposta, irrispettosa dei suoi obblighi sociali, vittima e artefice essa stessa di un deficit di incompletezza, di capacità di autocontrollo, di solidità morale. Si è tanto insistito in questi anni sulla parabola di un Parlamento assopito, intristito, decaduto, tra semplicismo e megalomania, che a volte si ha come la sensazione che i nostri rappresentanti, con alcune valide eccezioni, ricoprano gli incarichi non tanto per spirito di servizio, quanto per appetiti personali, per connivenze di gruppo, in cerca di ricompense e gratificazioni, credendo che l’astuzia nel fottere l’avversario rappresenti il massimo delle loro virtù. Ci sarà qualcuno che ci spiegherà quali siano stati i cambiamenti sociali e culturali, le cause antropologiche che si sono succedute nella società italiana che hanno determinato questo enorme scollamento del sistema politico, che ci faccia comprendere le cause della sua debolezza, della sua ovvia inconsistenza e come tale insignificanza possa danneggiare, provocandone un costante declino, le basi della struttura sociale, il fondamento della civile convivenza.
Quando al giovane Siddharta in cerca di lavoro, gli viene chiesto cosa sappia fare, lui risponde: Io so pensare, so aspettare, so digiunare. Si immerge nel mondo degli affari, dei sensi e delle passioni della vita materiale con il suo sapere accumulato alla scuola dei Samana fatto di regole fondate sulla meditazione e l’introspezione, sapendo affrontare la vita con senso della misura, con semplicità e allegria. Se primeggiava in tutto, nel lavoro come negli affetti, non era questione di intelligenza o di furbizia, ma perché certe persone più di altre riescono a trovare un rifugio in se stessi, a riempire il vuoto mentale concentrandosi sulle cose reali, imparando a fare una cosa alla volta e a farla intensamente, con una profonda presenza morale, rigenerando la propria mente nella quiete e nel silenzio, allontanando le preoccupazioni legate ai piaceri, ai lussi e agli affanni. Dice Siddharta: “La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo, mentre altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c‘è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino”. Forse il ricorso alla disciplina Zen saprebbe mitigare certi comportamenti astiosi, a ridurre l’ansia di partecipazione, ad arginare quella fretta chiassosa, quella voluttuosa frenesia di godimento che Hermann Hesse descriveva tipica degli uomini-bambini, dediti cioè ad una vita avida di appagamenti voluttuari, rimanendo però pur sempre insoddisfatta. Sembra piuttosto difficile immaginare la nostra classe politica assumere la “posizione del loto” sotto un albero di fico per cercare un nuovo respiro, per raggiungere la via illuminata, per trovare una nuova riconoscenza di sé, anche attraverso la pazienza dell’ascolto. Tuttavia un po’ di meditazione aiuterebbe ad accendere un po’ di luce, a scoprire una nuova consapevolezza, a farsi penetrare dalla propria coscienza, a restare connessi con la natura circostante ed, in definitiva, a vivere bene il proprio tempo. Vivere bene il presente per riceverne la giusta ricompensa.