Nella vita reale il sentimento dell’amore è un risiko insidioso in cui tutti i piani e le strategie vengono continuamente rimescolate per rendere il gioco dell’innamoramento sempre misterioso e sorprendente. Una delle possibili derivazioni del verbo amare viene dal sanscrito “kamare” che significa prendere o essere preso.
In questo caso, scrive George Duby nel libro “I peccati delle donne nel Medioevo”, il vocabolario è mutuato dalla pesca, cioè dall’hamus, l’amo, l’uncino. L’uomo è agganciato dall’amore, afferrato, oppure è preso come da una malattia: passione, mancanza di freni, alienazione, valanga, forza terribile. Visto così l’amore sembra l’origine di tutti i mali, una vera e propria sciagura, benché l’epoca incandescente dell’incontro fatato, la sua sublime melodia, persino il suo eccesso, si conservi nella memoria sempre vivido ed emozionante.
Tuttavia, così come irresistibile e travolgente è l’atto dell’innamoramento tanto distruttivo e spietato può rilevarsi il suo epilogo. La fine di un rapporto affettivo non conosce mezze misure, può trasformarsi in lotta acerrima, un cercarsi e respingersi senza tregua, si può tradurre all’improvviso in odio reciproco, rancore, finimondo. L’amore, se malato, non agevola il rapporto tra uomo e donna ma lo complica: “o insieme o niente”, “o te o me”, su questa terra. L’incendio dell’anima che divampa all’inizio si trasfigura in meschina contesa, in puntigliosa rivendicazione. Le violenze casalinghe sembrano inspiegabili, inconcepibili, spropositate dal punta di vista etico, ma sono in agguato in ogni esperienza di coppia, anche la più soave. Uomini e donne alla fine della corsa, quando i sensi si contraggono, quando i sogni d’amore si infrangono perché labili, instabili, restano in bilico seduti sopra un cornicione acuminato di detriti per rinfacciarsi tutto il male possibile, tutta la crudeltà di cui non credevano di essere capaci di esternare. E’ una legge di natura, siamo fatti così: possiamo nutrire affetto per qualcuno ma allo stesso tempo detestarlo o addirittura, come si sta ripetendo troppo spesso, diventarne nemico, sino ad arrivare allo sproposito di annientarlo. Una interminabile e spaventosa guerra dei Roses. Le coppie deluse si odiano a morte e la morte sopraggiunge talvolta per lavare l’onta del disprezzo, perché ci si sente afflitti, rifiutati, reietti.
Nel film Stregata dalla luna la signora Castorini, stanca dei tradimenti di suo marito, chiede a Johnny Cammareri, suo mancato genero, perché gli uomini vanno a caccia di altre donne? Lui le risponde: “Forse perché hanno paura di morire”. Vanno alla ricerca baldanzosa di una nuova passione travolgente, di un nuovo “stato nascente”, come lo chiama Max Weber, che scacci via quel senso di morte, di privazione, che in assenza di vero amore prende il sopravvento. Nell’ebbrezza effervescente della passione la paura della morte scompare. “Quando amiamo e siamo riamati, dice il sociologo Alberoni, ci immettiamo nel grande respiro dell’universo. Diventiamo parte del suo moto e della sua armonia”. Si è sulla cresta dell’onda, in uno stato di grazia, pieni di energia, ci sentiamo accolti e ben voluti dalla società. Ma quando lo scuotimento dell’anima svanisce, e la coppia non ha costruito nel tempo un legame maturo, intimo, di confidenza, la fine dell’amore viene percepita come il fallimento di una intera vita. La terra allora si oscura e il sorriso si trasforma in un ghigno spaventoso.
Il termine femminicidio ha un significato più ampio e profondo di un semplice assassinio, perché include una molteplicità di atti violenti, maltrattamenti, soprusi o ricatti psicologici, tipici della relazione domestica, che puntano a minare non solo l’indipendenza ma anche la dignità e l’integrità della donna, cercando di sottometterla, umiliarla, terrorizzarla. Per questo le donne hanno più probabilità di morire per mano di qualcuno che conoscono. Le donne uccise in famiglia rappresentano la stragrande maggioranza in tutti i luoghi del mondo, con percentuali inconcepibili in Asia e in Africa. In queste regioni prevalgono ancora ragioni di arretratezza e fanatismo culturale che tengono le donne ai margini della società in quanto ritenute pericolose e malvage, come le streghe del seicento, simbolo di corruzione, soggette alla furia persecutoria di un maschilismo gretto che si sente minacciato nella sua spudorata brama di predominio. Come accade oggi in Afghanistan. Nell’Occidente civilizzato cresce la ferocia generata dalla fragilità del maschio, dalla sua crescente solitudine, dal suo sprezzante rifiuto di adattarsi alla costruzione, difficile e sofferta, di una relazione amorosa fondata sul reciproco rispetto. Oggi una donna, pur avendo a disposizione più strumenti per difendersi e decidere di non farsi trovare nelle condizioni di subire una efferata violenza, deve vedersela comunque con individui sempre meno empatici e disperati in cui spesso prevale l’idea spregevole di punire il partner per medicare il proprio malessere, la propria inadeguatezza. Uomini, che nella loro formazione non hanno mai imparato a fare i conti con il senso di vuoto, con la pena, che si sperimenta con le sconfitte. Sono eccitati nel provocare la morte, perché impreparati ad accettare un nuovo progetto di vita.