E’ finita prima di nascere, con una umiliante retromarcia, la sfida temeraria innescata dai boss della Superlega con un’iniziativa davvero improvvida di progettualità euforica e approssimativa. Si è trattato di una scalata ostile per il controllo della piramide del calcio che però non ha tenuto conto dell’ostacolo più insormontabile che si presentava davanti al loro disegno balordo di trasformare il calcio in un mega circo mediatico:
non si è fatto i conti con l’intifada impetuosa e spiazzante dei tifosi. Non c’è stata partita tra il cuore nobile e coriaceo dei tifosi ed il portafoglio avido e negletto dei padroni del calcio. Hanno iniziato per primi i tifosi del Chelsea che hanno reclamato la propria dignità dopo anni di sacrificio e di instancabile supporto alla propria squadra, tra notti passate al gelo, inneggiando e strombazzando nella vittoria, tormentandosi e penando nella sconfitta, sentendosene sempre parte integrante, costitutiva, del club. Infine hanno protestato ai propri dirigenti e al mondo intero di sentirsi Fan e non Consumatori, indignati nel doversi esporre davanti ad una pay-tv, come scimmie replicanti, tra mille gadget pubblicitari.
Fallisce, dunque, il tentativo onnivoro di una Superlega superba che aveva l’intento di requisire il pallone e portarselo di soppiatto nel proprio salotto di casa, decretando la fine del gioco “giocato” e lasciando gli spiriti pallonari con il broncio e con la pena di vedersi sottrarre il giocattolo più prelibato dei loro sogni. Il patron Agnelli l’altro giorno aveva dichiarato, in modo netto e tranchant, senza la più impalpabile grinza: “Il calcio non è più un gioco, ma un comparto industriale, e serve stabilità”. Dove per stabilità, ovviamente, si intendeva denaro, tanto denaro. Parole che nella mente di un tifoso sono suonate davvero sgradevoli se pronunciate da un dirigente sportivo di lungo corso, ma anche da parte di un capitano d’industria che avrebbe dovuto tenere conto, nel loro progetto arrembante, assieme agli altri capitani coraggiosi, dello sgarbo inaccettabile che avrebbe destato in milioni di persone che amano ancora un tipo di calcio intriso di passione e di dedizione per la propria squadra del cuore. Bisognava, forse, prima soffermarsi sulla diversità intrinseca che esiste tra gestire una società di calcio e un’azienda che produce yogurt al pistacchio, aver riflettuto prima sulle incresciose manchevolezze che lor signori hanno prodotto inseguendo il tarlo di un gigantismo economico esasperato, dopo aver depauperato e portato sul lastrico conti economici riempiti di costi insostenibili, proiezione della loro insaziabile cupidigia, inseguendo il successo attraverso una scellerata rincorsa di ingaggi ingiustificati e la compravendita di calciatori tanto passabili, quando brocchi, scambiati per campioni stratosferici, solo per arrotondare i conti aziendali con comode plusvalenze.
Salvaguardare i bilanci delle società di calcio è importante ma lo è anche, trasversalmente, pensare al peso e alla natura dei propri tifosi che pur restano il bene primigeno, quello più prezioso e inalienabile di una società, la parte più ispirata e affascinante, folle e goliardica, tenera e sempre affamata di quel piacere ineguagliabile di sentirsi fanciullo in un mondo di traversie e di tremori, che nessuna esperienza vitale sarebbe in grado di replicare e che ha permesso al calcio di sopravvivere e rendere in alcuni momenti anche immenso lo spettacolo sportivo da oltre un secolo. Ed è davvero sorprendente che società quotate in borsa, sostenute da una invidiabile organizzazione e appoggi finanziari, non abbiano pensato di arginare il progressivo indebitamento riprogrammando la riduzione dei costi interni, differenziando il business o recuperando, come già sperimentato, un solido rapporto con i tifosi attraverso l’azionariato popolare ed, infine, dandosi regole più proporzionate senza farsi ossessionare da vanaglorie sconsiderate. Se si è arrivati a questa soluzione rocambolesca e carbonara forse è perché in fondo si è ritenuto che il pallone, nel gioco del calcio, è diventato superfluo, non serve neanche più, tanto vale farlo sparire dal rettangolo di gioco e spegnere le luci dagli spalti. Non serve più l’oceano di folla in movimento con una birra in mano o lo sfottò liberatorio tra tifosi, perché considerata ormai prassi inadatta per la filosofia oggi prevalente. Nel business moderno, in un mondo sempre più scivoloso e senza pensiero, la strada più facile rimane quella di aggrapparsi ai soldi, visto che comunque se ne trovano in abbondanza. Tuttavia, se l’unica prospettiva rimane quella di elevare e concentrare la competizione tra pochi pescecani, si finirebbe inevitabilmente per alimentare nuovi bisogni di debito e contemplare sempre più urgenti trasfusioni di denaro, prima che tutto il sangue del calcio risulti raggrumato.